Spartaco n. 65

Febbraio 2005

Guerra, razzismo, licenziamenti...

Respingere l’offensiva capitalista con la lotta di classe!

L’Unione/Rifondazione: trappola per gli operai

Il governo Berlusconi/Bossi/Fini ha mantenuto gran parte delle sue promesse. Sarà ricordato per il suo debutto con la mattanza di Genova 2001 e la sua partecipazione alla carneficina irachena. In tre anni e mezzo è riuscito ad approfondire gli attacchi alle condizioni di vita dei lavoratori, degli immigrati, dei giovani, nel solco tracciato dai precedenti governi di Prodi e D’Alema. La legge Turco-Napolitano, che nel 1997 creò i centri di detenzione per immigrati, si è trasformata nella Bossi-Fini, che incatena centinaia di migliaia di lavoratori immigrati al ricatto dei “contratti di soggiorno”. Il Patto Treu, appoggiato a suo tempo da Ds e Rifondazione (Rc), ha spalancato la diga ad ogni forma di sfruttamento e ricatto dei giovani lavoratori, in un delirio di contratti a termine, co. co. co. e job sharing. Sanità, istruzione e pensioni sono state ulteriormente falcidiate. I bombardamenti sulla Serbia e le guerre “umanitarie” del centrosinistra, si sono prolungate nella sanguinosa “guerra al terrorismo” dell’alleanza di Bush, Blair e Berlusconi. Ci limitiamo agli esempi più noti.

Ma negli ultimi mesi, un settore decisivo della borghesia italiana, incarnato dall’ex notabile democristiano Prodi e dal neoeletto capo di Confindustria Montezemolo, ha iniziato a pensare che forse il governo Berlusconi, a causa delle sue frizioni interne, dell’incapacità di fornire una linea di politica economica coerente ed efficace per mantenere a galla il capitalismo italiano in un’epoca di spietata competizione internazionale e di crisi interna (cui si aggiunge l’atteggiamento di sfida perenne nei confronti di sindacati ancora potenti) si sta avviando al capolinea. Inoltre negli ultimi due anni sono scoppiate a più riprese importanti lotte operaie, che spesso hanno spezzato la camicia di forza imposta dalle leggi antisciopero e dai burocrati sindacali: la lunga e vittoriosa battaglia degli operai di Melfi; gli scioperi selvaggi nei trasporti pubblici, minacciati di precettazioni e sabotati a ogni passo dalla burocrazia sindacale, che sono riusciti a strappare solo aumenti contrattuali già previsti; la lunga lotta dei lavoratori aeroportuali, pugnalate alla spalle dai dirigenti sindacali, che hanno fatto passare senza neppure uno sciopero migliaia di licenziamenti all’Alitalia. Perciò parti della borghesia puntano a resuscitare la coalizione dell’Ulivo e la vecchia carta della “concertazione”, cioè del coinvolgimento dei vertici sindacali e dei partiti di sinistra, inclusa Rifondazione, con le loro radici sociali nella classe operaia, affinché gestiscano in prima persona i tagli e le manovre d’austerità contro i lavoratori.

Avanti popolo, alle poltrone…

I dirigenti di Rifondazione sanno benissimo quello che la borghesia si aspetta da loro. E sanno di dover indorare la pillola agli occhi dei loro militanti, con la promessa che la partecipazione di Rc ad un’alleanza con l’Ulivo, col nuovo nome di l’Unione, “sposterebbe a sinistra” l’asse del governo, come ha spiegato Piero Sansonetti, neodirettore di Liberazione (9 gennaio 2005):

“L’idea è semplicissima: la borghesia italiana ha bisogno di un governo che le consenta di recuperare competitività sui mercati, senza modificare i meccanismi dei mercati. Per raggiungere questo obiettivo bisogna ridurre il costo del lavoro, modificare le relazioni industriali a favore delle aziende, tagliare la spesa pubblica, tenere basso il livello del conflitto sociale. Quale è la formula politica per ottenere questi risultati? Cambia. In alcuni momenti può essere più utile un governo di centrodestra in altri momenti un governo di centrosinistra. Le politiche di questi governi però devono essere fondamentalmente simili, stabili, continuiste una rispetto all’altra. Cos’è che fa saltare questo schema, che fin qui ha funzionato perfettamente, anche negli anni ‘90? L’ingresso nel governo del partito di Rifondazione. C’è un solo modo per risolvere questa contraddizione: eliminare Rifondazione dall’alleanza. Però c’è un problema: se si elimina Rifondazione dall’alleanza si perdono le elezioni, e allora non si può realizzare quel ricambio di gruppi dirigenti che la borghesia auspica, perché non si fida più dei gruppi berlusconiani, troppo egoisti, troppo faziosi, troppo rozzi, troppo chiusi nell’interesse di parte, troppo poco nazionali” .

Ciò che Sansonetti non dice è che Rc svolge un ruolo importante in questo quadro non solo in termini elettorali, ma per l’autorità che esercita sullo strato più combattivo e cosciente degli operai: con un governo che includa Rc, cui fanno riferimento i settori più combattivi della Cgil, della Fiom e persino molti dirigenti dei Cobas, i capitalisti sperano di imbrigliare efficacemente la classe operaia per qualche anno.

Al continuo arretramento delle condizioni di vita operaie è necessario dare una risposta di lotta di classe decisa e rivolta contro tutte le forme di sfruttamento e oppressione, non l’inganno della “unità contro Berlusconi” con i settori presuntamente “progressisti” della classe dominante. L’idea che pur di “cacciare Berlusconi” sia necessario allearsi con altre forze capitaliste, significa subordinare gli interessi dei lavoratori e degli oppressi a quelli dei loro sfruttatori e oppressori. E’ necessario comprendere che finché l’odio e la rabbia per tutto quello che i Berlusconi, i Bossi e affini incarnano agli occhi dei lavoratori, saranno cinicamente usati da partiti come Ds e Rc per contribuire a stabilizzare l’ordinamento capitalista, quello che si otterrà non sarà un “capitalismo dal volto umano”, che difende i diritti dei lavoratori, pacifista e non violento, ma la paralisi del movimento operaio, la classe sul cui sfruttamento si fonda questa società, ma anche l’unica forza che ha il potere di trasformarla da cima a fondo.

Gli appelli all’unità per “cacciare la destra”, che si moltiplicano in una campagna elettorale interminabile, si riducono all’idea che, per quanto nauseabonda sia la coalizione dell’Unione, è comunque un “male minore” rispetto al governo Berlusconi. Se si limita il ragionamento a un formalismo superficiale è ovvio, ad esempio, che il candidato di Rc in Puglia Nichi Vendola, portavoce della “sinistra radicale” e omosessuale militante, appaia come una vera alternativa, nella Puglia dei santuari di Padre Pio, del capo inquisitore Buttiglione, dalle coste militarizzate e disseminate di campi di detenzione per immigrati.

Ma come marxisti sappiamo che quello che conta non sono le combinazioni personali o le vuote frasi sui “programmi”, ma le classi sociali, i loro interessi materiali e i conflitti che ne derivano. La società capitalista è formata da due classi fondamentali con interessi contrapposti e inconciliabili, la borghesia e la classe operaia. Lo sfruttamento, le oppressioni specifiche, le guerre di oppressione coloniale non derivano tanto dal tipo di governo in carica, ma dal sistema di produzione capitalista che porta con sé la necessità di creare e aumentare i profitti dei capitalisti attraverso lo sfruttamento della classe operaia e allo stesso tempo la necessità di frammentare il proletariato lungo linee etniche, nazionali, di sesso, di età ecc. per ridurne la forza sociale. Un contesto di crescente competizione internazionale come quello attuale, conseguenza della distruzione controrivoluzionaria dell’Unione Sovietica, spinge in tutti i paesi le classi capitaliste a smantellare le conquiste operaie conquistate a caro prezzo nel passato per difendere i propri profitti. La difesa degli interessi dei lavoratori, degli immigrati, dei popoli oppressi può avvenire solo sul terreno della lotta di classe, non sul terreno delle elezioni parlamentari e quello che conta è la capacità di lotta, l’organizzazione e la coscienza di classe del proletariato.

Ora alla vigilia delle elezioni regionali invitiamo a non dare nessun appoggio elettorale a nessuno dei partiti della coalizione capitalista dell’Unione/Rifondazione ed anzi ad opporsi su una base di classe a questa coalizione capitalista come primo passo di demarcazione della classe lavoratrice dai suoi sfruttatori. Noi siamo per l’unità della classe operaia, alla testa di tutti coloro che sono oppressi in questa società, contro l’intera classe capitalista e ci opponiamo per principio a qualsiasi forma di collaborazione di classe tra i lavoratori e un settore dei loro sfruttatori che viene spacciato come “progressista”: una “unità” in tutto simile a quella del mulo col padrone che si porta in groppa. Un voto per l’Unione/Rifondazione sarebbe un voto per un futuro governo che già ha dichiarato a piena voce di voler fare gli interessi della borghesia e che sarebbe altrettanto guerrafondaio, razzista e antioperaio dei suoi predecessori negli anni Novanta.

Opposizione nel quadro del capitalismo

Fin dalla sua nascita, la politica di Rifondazione è stata quella della collaborazione di classe con i settori cosiddetti “progressisti” della borghesia italiana nel tentativo sistematico di costruire un’alleanza con settori dell’ex democrazia cristiana e con i Ds, per sostituire la destra al governo, una politica culminata nel sostegno di Rc alla legge razzista Turco-Napolitano, al Patto Treu e alle finanziarie del governo Prodi, le più dure degli ultimi 15 anni.

Ma anche quando è passata all’opposizione parlamentare, dopo la rottura con Prodi, Rifondazione non è stata affatto il “cuore dell’opposizione” o un “partito di classe” come la descrive ad esempio la sinistra interna di Progetto comunista (Mozione 3 del VI Congresso di Rc). Pur non governando il paese in alleanza con forze borghesi (un’alleanza che invece ha sempre portato avanti nelle amministrazioni regionali e locali), Rc ha difeso lealmente gli interessi della borghesia. Da Genova alle manifestazioni contro la guerra in Iraq, ha svolto un ruolo decisivo per riconciliare con l’ordinamento borghese la rabbia di migliaia di giovani contro il sistema della repressione e della guerra. A Genova, di fronte all’indignazione rabbiosa di tanti lavoratori per il volto nudo della “democrazia” borghese (il manganello del poliziotto e il “lager” di Bolzaneto) Rc ha denunciato le “provocazioni” dei black bloc, e invece di spiegare cosa è realmente la “democrazia” borghese, ha cercato di far credere che queste cose accadono solo quando ci sono dei governi di destra che fomentano le pulsioni reazionarie della polizia. A partire da Genova, Rc ha intensificato le prediche sulla “non violenza”, volte a disarmare gli oppositori del capitalismo di fronte alla violenza organizzata dello Stato. A differenza di Rc, noi ci siamo schierati in difesa delle vittime della repressione dello Stato, inclusi gli anarchici e i black bloc e abbiamo fatto appello a scioperi operai per protestare contro la repressione. Il fatto che i burocrati sindacali di Rc e Ds non abbiano indetto nemmeno un’ora di sciopero per la mattanza di Genova e l’assassinio di Carlo Giuliani, mentre si sono affannati a manifestare la loro solidarietà ai Marco Biagi e ai carabinieri di Nassirya dimostra la loro lealtà fondamentale allo Stato capitalista.

Pur schierandosi contro la guerra in Serbia dell’Ulivo e contro l’attacco all’Iraq, il programma di Rc è stato uno sforzo continuo di riconciliare i militanti antiguerra con l’imperialismo. Li ha ingannati promuovendo l’idea di una “Europa disarmata” centrata su di un “Asse pacifista franco-tedesco”, facendo a più riprese appello a forze imperialiste (dietro la maschera “umanitaria” dei caschi blu dell’Onu o di una combinazione di forze europee e arabe) perché sostituissero quelle americane nell’occupazione dell’Iraq, predicando che si poteva “fermare la guerra” in alleanza con forze che sono veri e propri pilastri del sistema capitalista, come la Chiesa cattolica, oppure cacciando i governi di Bush e Berlusconi e sostituendoli con il Partito democratico o la coalizione dell’Ulivo/l’Unione in Italia.

Il “movimento pacifista”, permeato da questa politica, si è concentrato sull’organizzazione di gigantesche manifestazioni di protesta morale, di per sé incapaci di mantenere la promessa di fermare la guerra. La guerra imperialista non è un’aberrazione temporanea o un’espressione dell’arroganza della superpotenza americana, ma una continuazione con mezzi militari della “normale” politica di dominio e sfruttamento del mondo da parte di un pugno di nazioni ricche e potenti. L’imperialismo non può essere riformato, ma sparirà solo eliminando il sistema capitalista che lo genera.

Durante la guerra in Iraq, noi della Lega comunista internazionale abbiamo fatto appello al movimento operaio a schierarsi in difesa dell’Iraq, soprattutto con la lotta di classe, con scioperi e boicottaggi operai nei centri imperialisti, senza dare alcun appoggio politico al sanguinario regime ba’athista di Saddam Hussein. Abbiamo cercato di spiegare che era impossibile opporsi alla guerra in alleanza con forze pacifiste e filocapitaliste, che in generale esprimevano le aspirazioni di un settore della borghesia a riallinearsi con gli imperialisti francesi e tedeschi. La guerra contro l’Iraq prosegue oggi nella sanguinosa occupazione coloniale simboleggiata dalle torture di Abu Ghraib e dai massacri di Najaf e Falluja. I lavoratori in tutto il mondo devono lottare per il ritiro immediato e incondizionato di tutte le truppe di occupazione imperialiste e schierarsi dalla parte di quelli che combattono contro l’occupazione dell’Iraq (quando rivolgono effettivamente i loro colpi al dispositivo di occupazione e senza dare alcun sostegno politico alle forze nazionaliste e islamiste che dominano la “resistenza”, si veda Spartaco n.64).

Sei congressi, cinque mozioni, una sola politica:
la collaborazione di classe

La determinazione di Bertinotti ad entrare in un (ipotetico) futuro governo capitalista senza se e senza ma e il suo arrogante comportamento da autocrate hanno creato mal di pancia tra molti dirigenti del partito. Quel che più conta, la base si è polarizzata tra un settore che appoggia la linea di Bertinotti di “influenzare” il centrosinistra, e quella parte di giovani militanti e di settori operai (significativamente concentrati nel Sud e in alcune importanti fabbriche come la Fiat di Melfi o Fincantieri a Genova) per i quali il ricordo del precedente sostegno di Rifondazione a Prodi è ancora vivo e doloroso. La partecipazione del Prc ad un futuro governo con l’Ulivo/Unione è diventata il centro del prossimo congresso di Rifondazione, ai primi di marzo, con cui la maggioranza bertinottiana spera di mettere in riga il partito in vista delle elezioni e di una possibile entrata al governo.

Dietro alle cinque mozioni congressuali, dentro Rifondazione si fronteggiano essenzialmente due linee politiche, contrapposte per quanto riguarda le prospettive immediate del partito ma entrambe saldamente ancorate al terreno del parlamentarismo filocapitalista su cui opera Rc.

La maggioranza bertinottiana e le sue code (tra cui i nostalgici del vecchio Pci dell’Ernesto, che occupano posizioni chiave nell’apparato burocratico del partito) sostengono che il modo migliore per difendere gli interessi dei lavoratori sia quello di cacciare Berlusconi e sostituirlo con un governo dell’Ulivo/Unione, cui partecipare incondizionatamente o ponendo (come propone la Mozione 2, “Essere comunisti”) delle condizioni che consentano da una parte di sganciare il Prc dall’Unione qualora questa facesse una politica troppo di destra, ma anche di “motivare il ‘popolo della sinistra’ nella battaglia elettorale”, suscitando maggiore fiducia verso l’Ulivo/Unione nella base di Rc.

I sedicenti “trotskisti” della rivista Erre, che dopo aver sostenuto per anni la maggioranza, hanno presentato una loro mozione (Mozione 4, “Un’altra rifondazione è possibile”) propongono di contribuire a far nascere col voto di Rc un governo di “centrosinistra”, per poi dargli un appoggio esterno “giudicando di volta in volta i provvedimenti presi”.

Il risultato della loro politica di appoggio critico e pressione movimentista su di un governo di fronte popolare capitalista, si è visto nell’esperienza degli ultimi tre anni del Brasile di Lula. Il governo Lula è un esempio illuminante del ruolo che giocano i governi di “fronte popolare”. L’ex operaio metalmeccanico Luiz Inácio “Lula” da Silva, un tempo uno dei più celebri dirigenti sindacali dell’America latina, oggi è presidente del Brasile e negli ultimi tre anni ha usato la sua immensa autorità sul movimento operaio per imporre molte delle richieste del Fondo monetario internazionale (Fmi) alla popolazione brasiliana, cosa che non era riuscita ai suoi predecessori. Nel primo anno, il governo Lula ha prodotto un surplus maggiore di quello richiesto dall’Fmi, tagliando le spese sociali e aumentando i licenziamenti. Nel 2003 ha speso in tre mesi 48 miliardi di real (circa 17 miliardi di dollari) per pagare all’Fmi gli interessi sul debito. Dopo l’ascesa di Lula al governo, la disoccupazione è aumentata di circa 600.000 unità mentre, secondo il New York Times (4 gennaio 2004), il potere d’acquisto della popolazione è diminuito del 20 percento e le spese per i programmi sociali sono state ridotte dell’8 percento rispetto all’ultimo anno del precedente governo. Tutta la retorica sul Forum sociale mondiale, definito da Lula “il più grande avvenimento politico dell’intera storia dell’umanità” Le Monde Diplomatique (gennaio 2005) e sui “bilanci partecipativi” di Porto Alegre, in cui sono maestri i sostenitori di Erre, si è rivelata una pura maschera socialdemocratica per lo sfruttamento e la repressione neocoloniali. I compagni brasiliani di Erre, Democracia Socialista, partecipano direttamente al governo del Frente Popular Brasil di Lula e occupano, con Miguel Rossetto, il ministero chiave dello “sviluppo agricolo”: in un governo che ha distribuito ai contadini meno terra di qualsiasi governo precedente, che ha fatto arrestare il leader storico del Movimento dei Sem Terra (Mst), José Rainha, ed ha concesso l’immunità agli assassini prezzolati dei latifondisti.

Sul versante opposto a Bertinotti, vi sono la minoranza riformista di FalceMartello (Mozione 5, “Rompere con Prodi. Preparare l’alternativa operaia”) e quella di Progetto comunista (Mozione 3, “Per un progetto comunista”), che cercano di catalizzare la giusta opposizione della base del Prc al servilismo della sua direzione nei confronti dell’Unione e della borghesia. Ricorrendo ad una fraseologia marxista, denunciano a ragione gli innumerevoli tradimenti di Rifondazione e le continue genuflessioni del partito per rendersi accettabile e rispettabile agli occhi dei capitalisti.

La loro linea politica però si riassume nell’idea che bisogna cacciare Berlusconi e contribuire, anche alle elezioni, alla vittoria del centrosinistra, ma che Rifondazione dovrebbe poi “Rompere con Prodi” e schierarsi all’opposizione parlamentare, puntando a costruire un “governo delle sinistre” con i Ds (Mozione 5), o un “polo anticapitalistico autonomo e unitario” all’opposizione, che raccolga tra l’altro i Verdi, il Pdci e la sinistra Ds (Mozione 3).

FalceMartello, sostiene che se non si può entrare nel governo Prodi perché sarebbe troppo di destra, l’obiettivo delle lotte operaie dev’essere comunque quello di portare alla costruzione di un governo “delle sinistre”, tipo un governo Ds/Rc in Italia o il governo Zapatero in Spagna. Non solo, ma aggiungono che “il rifiuto dell’alleanza di governo con Prodi e la Gad (e di qualsiasi governo di collaborazione con i partiti della borghesia) non può quindi essere inteso come una opposizione pregiudiziale e assoluta ad entrare in qualsiasi governo” (FalceMartello n.181, 12 gennaio 2005). Vale a dire: i comunisti dovrebbero, se possibile, partecipare ad un governo capitalista “delle sinistre”, diventare ministri (con e senza portafoglio), sottosegretari, magari ministri della difesa e degli interni (cioè comandanti dell’esercito e della polizia) e chissà che altro.

Noi della Ltd’I ci opponiamo per principio alla partecipazione negli organismi esecutivi dello Stato borghese, perché significa diventare responsabili della politica borghese contro gli operai e gli oppressi. La partecipazione a governi capitalisti è sempre stata uno spartiacque nel movimento operaio tra i riformisti, che pensano che il socialismo possa essere realizzato passando attraverso il governo dello Stato capitalista, e i rivoluzionari, che sostengono che per costruire una società socialista bisogna spazzare via la macchina repressiva dello Stato borghese con una rivoluzione basata sulla classe operaia.

I marxisti hanno sempre riconosciuto che lo Stato, nelle parole di Engels, è un insieme di corpi di uomini armati per la difesa dell’ordine sociale esistente. Lo Stato capitalista difende la proprietà privata dei mezzi di produzione e del capitale da parte della classe dominante. Anche la più democratica delle repubbliche capitaliste è una dittatura mascherata di quella classe che possiede la stragrande maggioranza del capitale, dei mezzi di produzione e del potere. Sin dall’epoca della Comune di Parigi del 1871, i marxisti compresero che “la classe operaia non può impossessarsi puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in moto per i suoi fini” (Karl Marx, La guerra civile in Francia) e che la trasformazione socialista della società è impossibile senza la distruzione dell’apparato del potere statale della classe dominante. In Stato e Rivoluzione Lenin denunciò con forza quei “sedicenti socialisti che hanno sostituito alla lotta delle classi le loro fantasticherie sull’intesa fra le classi, si sono rappresentati anche la trasformazione socialista come una fantasticheria; non come l’abbattimento del dominio della classe sfruttatrice, ma come la sottomissione pacifica della minoranza alla maggioranza, consapevole dei propri compiti. Questa utopia piccolo-borghese, indissolubilmente legata al riconoscimento di uno Stato al di sopra delle classi, praticamente non ha portato ad altro che al tradimento degli interessi delle classi lavoratrici”.

Qualsiasi sia la sua composizione parlamentare, vale a dire, per assurdo, anche un governo formato solo da un partito “operaio” come Rifondazione, finché si basa sul parlamento e sullo Stato capitalista (cioè finché restano integri i corpi di uomini armati, polizia, tribunali, esercito, incaricati della difesa della proprietà privata dei mezzi di produzione), qualsiasi governo avrà una natura di classe capitalista e difenderà in definitiva gli interessi della borghesia contro il proletariato. Lo Stato borghese consente ai “socialisti” di entrare al governo a condizione che difendano il capitalismo dai suoi nemici. Accettare cariche esecutive significa accettare in pratica la falsa idea che la classe operaia può prendere in mano la macchina dello Stato esistente e usarla per i suoi scopi. La storia del Novecento è piena di esempi che lo dimostrano: dal governo della socialdemocrazia tedesca che nel 1919 massacrò gli operai rivoluzionari, ai vari governi laburisti inglesi che hanno amministrato il colonialismo britannico, per finire coi governi socialdemocratici e le coalizioni di sinistra che nell’ultimo decennio hanno governato in vari paesi d’Europa per conto dei capitalisti.

“Polo autonomo di classe”: riformismo piccolo piccolo

A differenza di FalceMartello, Progetto comunista insiste a ragione sul fatto che l’opposizione all’ingresso in qualsiasi governo capitalista è uno spartiacque storico tra marxisti e opportunisti. All’entrata del Prc in un governo Prodi, Progetto comunista contrappone l’appello a una “alternativa vera”, la costruzione di un “polo autonomo di classe inteso come fronte unico anticapitalistico” che porti avanti un’opposizione decisa alla politica del governo Berlusconi, gettando così le basi per costruire un futuro “governo d’alternativa” (Mozione 3). A questo fine, Progetto comunista fa appello “a tutte le forze protagoniste di tre anni di mobilitazioni contro Berlusconi, a partire dai lavoratori; a tutte le loro organizzazioni e rappresentanze di massa (CGIL, sindacalismo di base, rappresentanze del movimento antiglobalizzazione, organizzazioni del movimento contro la guerra); a tutte le forze e tendenze politiche di sinistra che sono state in questi anni dalla parte dei movimenti e che, per semplificare, hanno sostenuto il referendum del Prc sull’Articolo 18 (Sinistra DS, PdCI, Verdi)” cui chiede di “rompere con il Centro liberale e di unire nell’azione le proprie forze per candidarsi a dirigere la lotta contro Berlusconi e preparare un’alternativa vera” (Mozione 3).

Il “polo autonomo di classe” è un imbroglio.

Primo: non è affatto “di classe”. Non si può neppure parlare seriamente di un’opposizione di classe che includa partiti della classe capitalista, come sono, da cima a fondo, i Verdi, che non hanno nessuna radice nel movimento operaio e sostengono esplicitamente il sistema sociale capitalista. Già questo dimostra come il “polo di classe” di Progetto comunista, va in direzione opposta rispetto alla lotta di classe. Non è nient’altro che una versione in sedicesimo (e temporaneamente all’opposizione) della stessa collaborazione di classe di Rifondazione con la borghesia “progressista” che dicono di voler contrastare.

Nel tentativo di rimediare, Progetto comunista sostiene che si tratta di un “fronte unico anticapitalistico”, di una “sfida che mira a liberare lavoratori e movimenti dalle illusioni nelle loro direzioni allargando l’influenza alternativa del Prc” (Mozione 3).

Ma il “polo di classe” è tutt’altro che un “fronte unico”. Un fronte unico significa la ricerca dell’unità, in primo luogo delle organizzazioni operaie, per delle azioni e lotte concrete, come scioperi, mobilitazioni di difesa contro i fascisti, azioni per chiudere i Cpt o impedire le deportazioni degli immigrati. E’ una tattica rivolta ad ottenere un avanzamento per quanto minimo della lotta di classe e nello stesso tempo a sfruttare le vacillazioni e i tradimenti delle attuali direzioni per dimostrare la necessità di una direzione rivoluzionaria.

Il “polo autonomo di classe” della Mozione 3 è un blocco politico che ha come comune denominatore quello di determinare la caduta del governo Berlusconi con delle lotte di massa, sostituendolo non con l’Ulivo/Unione ma con un “programma di alternativa vera”; un “governo di alternativa” che “cancelli l’intera stagione di controriforme” e attui una politica di redistribuzione dei redditi e nazionalizzazioni delle industrie in crisi. “L’alternativa è anticapitalistica o non è”, recita la Mozione 3. Ma non si può costruire un blocco politico “anticapitalista” con forze nessuna delle quali ha un programma “anticapitalista”.

I comunisti non devono spacciare per “anticapitaliste” forze borghesi e quei veri e propri “luogotenenti della borghesia nel movimento operaio”, come li definiva Lenin, che sono i dirigenti riformisti, come invece fanno i dirigenti di Progetto comunista. Marco Ferrando, rivolgendosi all’assemblea nazionale organizzata il 15 gennaio dal manifesto (un conciliabolo dominato da sinistra Ds, Pdci, Verdi e da uno più prodiano di Prodi come Asor Rosa), l’ha definita:

“Un insieme di forze diverse, espressioni di diverse tradizioni, culture, orientamenti, ma accomunate da un fatto prezioso: l’aver difeso, nonostante tutto, dentro la svolta d’epoca internazionale e nazionale degli anni ‘90 un’appartenenza di campo; l’aver conservato una comune radice nelle classi subalterne, nel movimento operaio, nei movimenti di lotta; e quindi l’esser state insieme in questi anni dalla stessa parte della barricata, in quella nuova stagione che dopo quasi 30 anni di arretramenti e sconfitte ha visto riaffacciarsi una giovane generazione in Italia e nel mondo portatrice di un vento nuovo” (“Unire la sinistra, rompere col centro”, www.progettocomunista.it).

Non dubitiamo che Ferrando si senta “dalla stessa parte della barricata” di Asor Rosa, Salvi, Pecoraro Scanio e Diliberto. Ma loro stanno politicamente dalla parte dei capitalisti. E’ sintomatico del suo programma che Ferrando presenti come paladini delle “classi subalterne” e del “movimento operaio” gente responsabile dei bombardamenti omicidi contro la Serbia, della creazione dei centri di detenzione per immigrati, del Patto Treu e delle leggi antisciopero.

Noi trotskisti basiamo la nostra politica sul principio marxista che la classe operaia e la classe capitalista hanno interessi inconciliabili e contrapposti, che i lavoratori devono mantenersi completamente indipendenti dalla borghesia e dal suo Stato nella loro azione politica, puntando a rovesciarla. Anche Progetto comunista sostiene, ma solo a parole, l’indipendenza di classe del proletariato dai suoi sfruttatori. Ma nei quasi quindici anni trascorsi dentro il Prc ha sempre appoggiato col voto il Prc e le coalizioni capitaliste di cui faceva parte.

Già nelle elezioni del 1994, dove si presentavano i “Progressisti” capeggiati dall’ex banchiere Ciampi, Proposta chiese di “partecipare attivamente in prima fila alla campagna elettorale del partito e allo scontro centrale contro la destra” e redarguì i militanti riottosi, le “parti importanti del nostro partito [che] anche al di là della Seconda mozione sono purtroppo tentate da una posizione di astensione dalla campagna elettorale. Naturalmente è un errore” (Proposta n.3, marzo 1994). Progetto comunista ha anche appoggiato ripetutamente candidati capitalisti. Lo fecero, ad esempio, nelle elezioni del 1995, considerando accettabili “possibili autonome indicazioni di voto per un popolare nelle situazioni particolari in cui fosse necessario per sconfiggere in questo o quell’altro collegio un candidato fascista o reazionario” (Proposta n.7, gennaio 1995). Oppure alle elezioni di Genova del 1997, dove invitarono “militanti ed elettori a votare per il candidato Pericu nel ballottaggio”: un personaggio di cui loro stessi dicevano che “per immagine, provenienza sociale e storia politica, rappresenta l’alta borghesia ed i ceti medi cittadini” (Proposta n.19, gennaio 1998).

Se Progetto comunista avesse una seria intenzione di mettere in pratica le sue chiacchiere di opposizione al centrosinistra, potrebbe ad esempio presentarsi alle elezioni regionali o alle politiche del 2006 contro le liste Rifondazione/Unione. In quel caso, come comunisti, potremmo considerare di dar loro un sostegno elettorale critico. Ma questo non avverrà. Quello che sta avvenendo invece è che contribuiscono a tenere in piedi Rifondazione mentre questo partito incatena i lavoratori ai capitalisti. Poi cercheranno di aiutare Rifondazione e l’Unione a vincere le elezioni “incondizionatamente (anche col ricorso, se necessario, a forme di accordo tecnico-elettorale)” ed andare al governo (“Unire la sinistra, rompere col centro”, www.progettocomunista.it).

Il sostegno elettorale di Progetto comunista ad Rc e ad altri partiti della coalizione dell’Unione non è una “tattica” che fa avanzare la coscienza di classe e le lotte operaie. Al contrario contribuisce a consolidare nella classe operaia l’idea che coalizioni con forze politiche borghesi siano inevitabili: rappresenta una capitolazione opportunista e un tradimento degli interessi della classe operaia.

Serve un partito operaio rivoluzionario

Tutto il dibattito portato avanti dalle tendenze di sinistra nel Prc si svolge nel quadro di come “salvaguardare” Rc e il suo ruolo di opposizione parlamentare fondamentalmente leale all’ordinamento capitalista. Né Progetto comunista, né FalceMartello rappresentano un’alternativa alla politica di collaborazione di classe e al riformismo parlamentare di Rc, ma una sua variante critica più di sinistra, che riflette e ingabbia il malcontento della base operaia di Rifondazione.

Non è possibile trasformare Rifondazione in qualcosa di diverso da ciò che è. La strada verso un futuro socialista non passa per questo partito. Non solo perché Bertinotti e i suoi hanno saldamente in mano il partito, ma perché Rifondazione si basa su di un programma condiviso di collaborazione di classe e riformismo filocapitalista. Rifondazione comunista è quello che noi leninisti definiamo un partito operaio-borghese: con una base sociale nella classe operaia e una politica capitalista. Non è solo uno strumento inefficace nella lotta per difendere gli interessi dei lavoratori, è un ostacolo sulla strada della loro emancipazione. Nasconderlo, come fanno FalceMartello e Progetto comunista, significa ingannare i lavoratori dando l’illusione che un partito come Rifondazione possa diventare uno strumento per la trasformazione socialista della società.

Per strappare alla politica socialdemocratica i settori decisivi del proletariato che sono ancora sotto la sua influenza e il suo controllo politico, non bisogna illuderli che facendo le dovute pressioni si possa riuscire a trasformare qualitativamente questi partiti. Così facendo li si imbriglia alle loro direzioni. Bisogna piuttosto usare le contraddizioni tra gli interessi concreti della classe operaia e la politica delle sue attuali direzioni, per strappare la maggioranza dei lavoratori ai partiti riformisti come Rifondazione e costruire un partito rivoluzionario.

Negli ultimi mesi i lavoratori, a scala internazionale, hanno subito attacchi crescenti. La vittoria di Bush nelle elezioni americane dello scorso novembre, ottenuta rimestando nel torbido dell’integralismo cristiano, razzista e oscurantista, ha incoraggiato la feccia reazionaria di tutto il mondo. In Francia il governo Raffarin ha cancellato la settimana lavorativa di 35 ore. In Germania l’orario lavorativo è stato aumentato e sono stati imposti drastici tagli salariali con la minaccia delle delocalizzazioni. Nell’ultimo decennio la coscienza di classe del proletariato ha conosciuto un riflusso storico rispetto all’ultimo secolo, a causa della distruzione dello stato operaio degenerato sovietico e della successiva campagna sulla “morte del comunismo”: la maggior parte dei lavoratori non identificano più le loro lotte con la prospettiva di rovesciare il capitalismo. Per questo tra i giovani tendono a prevalere forme di protesta morale impotente, che si propongono di denunciare e attaccare le conseguenze più oscene e visibili del capitalismo, ma sono prive di un programma per trasformare la società alla radice. Sono risorte vecchie idee superate e sdentate, come il pacifismo, la “disobbedienza civile” e l’anarchismo.

Ciò che serve per lottare efficacemente contro gli attacchi dei capitalisti e avanzare verso la trasformazione socialista della società è un partito operaio, un’avanguardia organizzata sulla base di un programma rivoluzionario internazionalista intransigente. Può darsi che un partito del genere oggi debba raccogliere una minoranza, anche esigua, della classe operaia, e questo è vero in generale per tutti i periodi in cui si attraversa un periodo reazionario, ma le contraddizioni interne del capitalismo portano inevitabilmente la classe operaia a lottare e la marea della lotta di classe riprenderà a salire. Quando ciò avverrà, quello che farà la differenza sarà l’esistenza o meno di un partito rivoluzionario, che dovrà essere necessariamente forgiato e temprato durante il periodo precedente, un partito che abbia saputo andare controcorrente e dire la verità al proletariato.

Noi della Ltd’I ci battiamo per costruire questo partito conquistando la parte più avanzata dei lavoratori e dei giovani alla comprensione della necessità di organizzare la classe operaia per strappare il potere ai capitalisti, spezzare la vecchia macchina statale e costruire uno stato operaio basato su organizzazioni di massa del proletariato. La classe operai al potere dovrà riorganizzare l’economia, abolendo la proprietà privata dei mezzi di produzione, pianificando l’economia a scala internazionale perché soddisfi le esigenze umane e non le dinamiche anarchiche del sistema del profitto. Vogliamo costruire un mondo dove spariranno bisogno e povertà e con esse l’esistenza stessa delle classi sociali, la divisione tra lavoro manuale e intellettuale e lo Stato.