Spartaco N. 67

Marzo 2006

 

Da Berlino a Mosca

La lotta della Lci contro la controrivoluzione capitalista

Per nuove rivoluzioni d’Ottobre!

Il 21 maggio 2005 la Spartacist League/Britain ha organizzato una giornata di studio per commemorare la lotta della Lega comunista internazionale contro la controrivoluzione capitalista nella Germania Est e nell’ex Unione Sovietica nel 1989-1992. Riproduciamo di seguito una versione leggermente adattata per la pubblicazione della presentazione della compagna Jane Clancy.

Il 1989 fu un anno importante. Gli avvenimenti che scoppiarono erano destinati a cambiare in maniera fondamentale l’intero volto politico del mondo. Vi farò qualche esempio di cosa avvenne. A febbraio gli ultimi soldati dell’Armata rossa furono ritirati dall’Afghanistan. Erano i soldati che avevano combattuto contro un’accozzaglia reazionaria di fondamentalisti islamici, capi tribali e proprietari terrieri decisi a tenere le donne in schiavitù e a cancellare qualsiasi traccia di progresso sociale, pagati e armati dai miliardi di dollari dell’imperialismo Usa. Il ritiro non fu dovuto alla sconfitta delle truppe sovietiche. Non si trattava del “Vietnam russo” come lo descrivevano all’epoca. Al contrario le truppe furono ritirate nel tentativo, da parte del Cremlino, di placare gli imperialisti.

Nel mese di maggio centinaia di migliaia di studenti ed operai si riversarono nella Piazza Tienanmen di Pechino. Al canto dell’inno operaio rivoluzionario, l’Internazionale, si opposero alla corruzione dei burocrati stalinisti cinesi e alle devastazioni provocate dall’introduzione delle “riforme di mercato”. Nel mese di giugno, i controrivoluzionari di Solidarnosc, l’unico “sindacato” al mondo che ebbe l’appoggio di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, stravinse le elezioni polacche. Nello stesso mese il leader cinese Deng Xiaoping fece soffocare nel sangue la nascente rivoluzione politica di Piazza Tienanmen. Nel mese di luglio, l’Unione Sovietica fu scossa dal primo sciopero nazionale dei minatori nella sua storia. Sospinti dall’impatto delle riforme di mercato sulla loro vita e sulle loro condizioni, i minatori crearono rapidamente le forme organizzative del potere proletario: comitati di sciopero e milizie operaie.

Nel mese di ottobre, in coincidenza con le celebrazioni ufficiali del quarantesimo anniversario dello Stato operaio deformato della Germania Est, la Ddr, il paese esplose in una serie di crescenti proteste contro il regime stalinista di Erich Honecker. Il 4 novembre vi fu la più grande manifestazione della storia del paese: mezzo milione di persone sfilarono a Berlino Est con striscioni che dicevano “Per gli ideali comunisti – No ai privilegi!”, “Per una repubblica sovietica tedesca – Costruire i soviet!”. Il 9 novembre fu aperto il Muro di Berlino.

Gli altri relatori di questa giornata di studi parleranno dell’intervento della nostra tendenza internazionale, la Lega comunista internazionale, in quegli avvenimenti storici. Ci siamo battuti per la sconfitta delle forze della controrivoluzione capitalista e per la difesa delle conquiste della classe operaia e degli oppressi del mondo, incarnate nell’industria collettivizzata e nell’economia pianificata di quei paesi, per quanto mutilata e distorta dal malgoverno burocratico stalinista. Ci siamo battuti per una rivoluzione politica proletaria che cacciasse i traditori stalinisti, il cui cappio burocratico, strangolando l’economia, la vita politica e culturale, e tradendo le lotte rivoluzionarie internazionali in nome della “coesistenza pacifica” con l’imperialismo, minò e in definitiva aprì la strada alla distruzione di quegli stessi Stati operai. Ci siamo battuti per il programma rivoluzionario internazionalista che aveva animato il partito bolscevico di Lenin e Trotsky, che guidò la prima e sinora unica rivoluzione operaia vittoriosa della storia, la Rivoluzione d’Ottobre del 1917. Non abbiamo vinto, ma ci siamo battuti!

Nel 1990 le forze della controrivoluzione capitalista si erano sparse ormai in tutta l’Europa orientale. Nel 1991-92 avrebbero divorato l’Unione Sovietica, la patria della Rivoluzione russa. Il mondo in cui viviamo oggi è il prodotto di quella sconfitta storica per gli operai e gli oppressi del mondo, da cui l’imperialismo Usa è emerso come “unica superpotenza” senza rivali. Adesso, per gruppi come il Socialist Workers Party (Swp) e altri nella cosiddetta sinistra, è quasi un luogo comune strillare contro “i peggiori terroristi del mondo”, i cowboy pazzi con armi nucleari che siedono alla Casa Bianca. Ed è assolutamente vero. Ma questi sedicenti socialisti, che hanno accolto festosamente le forze della controrivoluzione nell’Europa dell’Est e in Unione Sovietica, hanno dato il loro piccolo contributo a questo esito. A chi possono rivolgersi adesso? Ai governanti imperialisti d’Europa! Alla vigilia del massacro unilaterale dell’Iraq (2002) hanno fatto appello ai capi di Stato europei perché “dessero una possibilità alla pace” e fermassero la mano dell’imperialismo Usa. Ora fanno appello ad una “Europa sociale” come contrappeso all’imperialismo Usa. Lo stesso tipo di contrappeso che vorrebbero i governanti europei. Stanno cercando di aumentare la loro competitività, sul terreno economico e su quello militare, nei confronti degli Usa. Per farlo, saccheggiano i salvadanai della classe operaia e degli oppressi, facendo a pezzi ciò che resta del cosiddetto Stato sociale. Le riforme che vanno, nel loro insieme, sotto il nome di Stato sociale, furono a loro volta introdotte nel tentativo di calmare un proletariato combattivo e politicamente cosciente e di tenere a bada lo “spettro del comunismo”, dopo che l’autorità dell’Unione Sovietica si era rafforzata grazie alla sconfitta inflitta ai nazisti di Hitler nella Seconda guerra mondiale.

Adesso assistiamo a questa campagna per “Consegnare la povertà alla storia”, in cui si chiede niente meno che al G8 di soccorrere le masse povere del cosiddetto “Terzo mondo”. Già il fatto che persino Gordon Brown (il ministro delle finanze del governo laburista di Blair) abbia chiesto di partecipare alla manifestazione di Edimburgo il prossimo luglio in coincidenza del meeting del G8 a Gleneagles fa capire che razza di imbroglio sia. Il Swp pensa che è un grande evento, a condizione che Brown faccia sul serio, ed è proprio ciò che Brown vuole fare. Il tour di Brown in Africa all’inizio dell’anno ha fatto chiaramente capire che “Consegnare la povertà alla storia” è solo una cinica copertura per aumentare il “libero scambio”, cioè il saccheggio e lo sfruttamento ancora maggiori dell’Africa sub sahariana. Affermando che è ora di smetterla di scusarsi per i crimini dell’impero britannico (anche se a dir la verità non ho visto tutta questa gente che va in giro a scusarsi per i crimini dell’impero), Brown lo ha anzi elogiato come “aperto, lungimirante ed internazionale”. Mi sembra che questa dichiarazione l’abbia fatta in Kenya! Praticamente sulle fosse comuni delle decine di migliaia di morti, ammazzati dalle forze britanniche durante la ribellione dei Mau Mau negli anni Cinquanta: quale miglior assaggio della brutale e sanguinosa eredità coloniale britannica?

Quando esisteva ancora l’Unione Sovietica, le vecchie colonie divenute formalmente indipendenti, disponevano di uno spazio di manovra tra i sovietici da un lato e gli imperialisti dall’altro. Oggi non più. Oggi gli imperialisti pensano che la caccia sia libera. Oltre alla totale devastazione e alle guerre fratricide scoppiate dopo la controrivoluzione in Europa dell’Est e in Unione Sovietica, il crescente saccheggio imperialista e la repressione militare costringono migliaia e migliaia di persone, dall’Africa al Centramerica all’Asia, a lasciare le loro case in cerca di una vita migliore (o semplicemente di sopravvivere) per sé e per le proprie famiglie nei paesi capitalisti più avanzati. Qui si scontrano con la reazione razzista e sciovinista fomentata dai governi capitalisti, come si è visto nel recente duello elettorale tra conservatori e laburisti. I capitalisti sono ben lieti di usare questi immigrati per fare i lavori più sporchi, duri e mal pagati. L’obiettivo delle loro campagne contro gli immigrati è di mantenere la classe operaia divisa, aizzando tutti contro tutti e tutti insieme contro gli “stranieri”.

A ciò si aggiunge la “guerra al terrorismo”. In questo caso, i fondamentalisti islamici, gli alleati di ieri nella guerra degli imperialisti contro il “comunismo ateo”, sono diventati i nemici di oggi. E’ ovvio che il termine guerra non ha alcun significato militare in questo caso. Si tratta di una costruzione politica che mira a rafforzare la macchina repressiva dello Stato capitalista contro qualsiasi minaccia, vera o presunta, al suo dominio.

Non che l’Unione Sovietica, nel corso della sua degenerazione stalinista, fosse il faro della rivoluzione mondiale che era all’epoca dei bolscevichi di Lenin e Trotsky. In ogni caso faceva da contrappeso alle ambizioni senza limiti degli imperialisti del mondo. Sul piano economico, non solo indicava un’alternativa allo sfruttamento capitalista, ma rivelava la superiorità di un’economia pianificata. Sul piano militare, legava le mani ai governi imperialisti, specialmente a quello americano, impedendogli di sradicare i loro nemici con le armi nucleari. Rappresentava la forza motrice militare e industriale per tutti quegli Stati in cui era stato rovesciato il capitalismo. Ed ora che non esiste più, gli imperialisti puntano a distruggere gli Stati operai che restano: Cuba, il Vietnam e la Corea del Nord. La Cina, il più grande e forte di questi, è la preda più ambita. Tutte le potenze imperialiste stanno cercando di mettersi nella posizione migliore, sia con mezzi economici che militari, per riconquistare la Cina allo sfruttamento imperialista.

La burocrazia stalinista cinese ha spalancato le porte di intere aree del paese, le zone di libero scambio, agli imperialisti e alla borghesia cinese espatriata. L’introduzione di riforme di mercato sempre più aggressive, che i burocrati chiamano “socialismo con caratteristiche cinesi”, ha eroso le conquiste della Rivoluzione cinese del 1949. Organizzazioni come il Socialist Party e Workers Power, che si sono unite al coro dell’anticomunismo contro l’Unione Sovietica all’epoca della Guerra fredda, adesso liquidano la Cina come semplicemente capitalista. Ma è un verdetto che dev’essere ancora stabilito. Non è una materia che va osservata come se fosse un pesce in un acquario, è una questione di lotte sociali viventi. E gli operai e i contadini cinesi sono stati coinvolti in molte lotte sociali di questo tipo e lo sono ogni giorno di più.

Noi non siamo osservatori passivi. Le lezioni dei nostri interventi contro le forze della controrivoluzione capitalista, dalla Germania Est all’Unione Sovietica, ci hanno armato per la battaglia in difesa delle conquiste rimanenti della Rivoluzione cinese del 1949 contro le forze del capitalismo, e per una rivoluzione politica che istituisca un governo di soviet operai e contadini, basato sulla democrazia proletaria e sull’internazionalismo rivoluzionario. Quest’ultimo è l’aspetto decisivo della difesa dello Stato operaio deformato cinese: è una lotta internazionale, legata alla lotta per nuove rivoluzioni d’Ottobre nei centri imperialisti.

Oggi vogliamo tracciare un quadro delle possibilità rivoluzionarie che esistevano, prima che venissero sconfitte, e di come ci siamo battuti per approfittarne in modo da far avanzare la causa del movimento operaio internazionale. E’ analizzando le battaglie del passato che si preparano quelle a venire. Ciò riveste una particolare importanza di questi tempi, quando l’idea della liberazione socialista dell’umanità ad opera del proletariato viene considerata nel migliore dei casi una specie di utopia. E’ anche questo un riflesso dell’impatto della distruzione controrivoluzionaria dell’Unione Sovietica, che ha scatenato un’offensiva ideologica da parte delle classi dominanti imperialiste sulla “morte del comunismo”, per cui la distruzione dell’Unione Sovietica è semplicemente la prova che il marxismo è un “esperimento fallito”. La coscienza è stata rigettata indietro al punto che oggi ben pochi operai identificano le loro lotte con il “socialismo”, quale che ne sia la loro idea. Per la maggioranza dei giovani, l’idea stessa che esista una classe operaia, per non parlare del fatto che il proletariato possiede il potere sociale e l’interesse storico per seppellire il sistema capitalista, sono antiquate nozioni marxiste. Il tutto è incoraggiato da una miriade di ciarlatani che si spacciano per ideologi del movimento “no global” e che cercano solo di dare al capitalismo un volto più “umano” e “democratico”. E la presunta sinistra “socialista” si accoda.

Il Swp non osa nemmeno sussurrare la parola “socialismo” nella sua coalizione elettorale, Respect, per paura di allontanare i suoi alleati delle moschee. Verboten anche la parola “laicismo”. Persino il Socialist Party, che ha sempre considerato come il non plus ultra del “socialismo” la Clausola IV del Partito laburista, da loro tradotta nella “nazionalizzazione dei settori chiave dell’economia”, di questi tempi riesce a malapena a parlarne. Lo fanno solo nelle cosiddette “prediche” domenicali, quando si presenta il programma “massimo”. E per finire c’è Workers Power. Nel 1979 videro nei mullah di Khomeini la strada verso un movimento rivoluzionario di massa. All’inizio degli anni Ottanta, il veicolo era invece Solidarnosc, anche se ammettevano che aveva degli obiettivi controrivoluzionari. Inutile dirlo, i loro precedenti movimenti di massa non sono finiti molto bene. Adesso sperano che siano i Social Forum europei e mondiali il veicolo per la costruzione di una nuova internazionale “rivoluzionaria”. Ma questi promettono di finire come le loro imprese precedenti. Questi Social Forum non sono nient’altro che dei veicoli per la collaborazione di classe, il modo per vari frontepopulisti momentaneamente disoccupati di tornare al lavoro nei governi della classe capitalista.

L’impatto della Rivoluzione russa del 1917

Per preparare questa presentazione, ho riletto un discorso che fece James P. Cannon, uno dei fondatori del trotskismo americano, in occasione del venticinquesimo anniversario della Rivoluzione russa, nel 1942, nel mezzo della carneficina della Seconda guerra mondiale e dopo che la macchina da guerra hitleriana aveva invaso l’Unione Sovietica. Parlò dell’impatto che la Rivoluzione russa aveva avuto nel mezzo di un altro periodo di reazione, quello imposto dalla Prima guerra mondiale:

“Ricordo i giorni bui della Prima guerra mondiale del 1914-18. Allora come oggi, tutte le speranze nel progresso umano sembravano soffocate nel sangue della guerra. Ovunque sembrava trionfare la reazione. I nemici del proletariato gioivano per i tradimenti e le capitolazioni dei partiti socialisti [che si erano schierati con i “propri” governi capitalisti in guerra]. Per molti, oserei dire la stragrande maggioranza, la teoria e la speranza nel socialismo sembravano essersi dissolte come un sogno utopico. E allora come oggi i deboli di spirito e i disertori deridevano chi continuava ostinatamente a lottare e a mantenere salda la fede rivoluzionaria. Nel 1914-17 l’intero movimento operaio fu travolto dalla depressione e dalla disperazione.

Ma improvvisamente la Rivoluzione russa del 7 novembre cambiò tutto, da un giorno all’altro. D’un sol colpo, la rivoluzione rimise in piedi il proletariato d’Europa. Fece sollevare centinaia di milioni di schiavi coloniali che non avevano mai conosciuto aspirazioni politiche, e che non avevano mai osato sperare. La Rivoluzione russa li risvegliò alla promessa di una nuova vita”. (“Il venticinquesimo anniversario della Rivoluzione russa”, Speeches for socialism, 1971).

La Rivoluzione d’Ottobre creò uno Stato operaio, basato su dei consigli operai (soviet). Il governo dei soviet espropriò sia i capitalisti russi che i possedimenti imperialisti e ripudiò completamente gli enormi debiti della Russia con le banche straniere. Diede la terra ai contadini e l’autodeterminazione alle molte nazioni oppresse del vecchio impero zarista. Le leggi discriminatorie contro le minoranze etniche e nazionali, contro le donne e gli omosessuali, vennero eliminate. Il governo rivoluzionario dichiarò che non era affare dello Stato interferire nelle relazioni sessuali consensuali della popolazione, quali che fossero. Quest’affermazione avrebbe fatto rizzare i capelli in testa alla sinistra di questo paese (Gran Bretagna), che predica “niente sesso, per favore, siamo inglesi” ed è diventata furiosa per la nostra difesa di Michael Jackson contro la caccia alle streghe sessuofoba e razzista dello Stato americano.

Il governo sovietico proclamò il diritto dei lavoratori alla salute, ad avere un lavoro, una casa e un’educazione, e intraprese i primi passi per la costruzione di una società socialista. Ma come aveva detto Marx “il diritto non può mai elevarsi al di sopra del livello economico della società e del grado di civiltà cui corrisponde”. Oggi fioriscono nuove “teorie” di tutti i tipi: che si può vincere senza prendere il potere, che la via verso la liberazione passa per la costruzione di utopiche zone “autonome”, liberate, non si sa come, dallo sfruttamento capitalista. Ma la lotta per l’emancipazione dell’umanità non è un atto mentale di uomini di buona volontà pervasi da idee di giustizia. Non la si può ottenere se persiste la povertà, che non può che perpetuare la lotta per la sopravvivenza. Come comprese Marx, lo sradicamento dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo deve necessariamente basarsi su condizioni di abbondanza materiale.

E non è l’abbondanza materiale che fa difetto nel mondo, specialmente nei paesi capitalisti avanzati. Il nostro compito è di impadronirci di queste ricchezze, create dal lavoro delle masse operaie, strappandole ai padroni capitalisti che hanno espropriato a proprio vantaggio il loro lavoro. Solo la classe operaia ha il potere sociale per farlo, grazie al suo ruolo nella produzione, alle sue dimensioni e alla sua organizzazione, ed ha anche l’interesse obiettivo a sradicare il sistema capitalista. Ciò che le manca è la coscienza politica e la direzione rivoluzionaria che conduca questa lotta. E’ questo l’elemento decisivo che il Partito bolscevico diede agli operai della Russia.

Ma le condizioni materiali per l’effettivo sviluppo di una società socialista non esistevano nella Russia arretrata, né possono in ogni caso esistere nei confini di un singolo paese. I bolscevichi sapevano sin dall’inizio che il neonato Stato operaio dei soviet non sarebbe sopravvissuto se la rivoluzione non si fosse estesa internazionalmente nei paesi capitalisti più avanzati. Nella Rivoluzione d’Ottobre vedevano l’inizio della rivoluzione operaia europea, e difatti alla fine della guerra l’Europa fu percorsa da un’ondata rivoluzionaria. I socialdemocratici, che durante la guerra erano passati dalla parte dei “loro” governi imperialisti, si adoperarono per salvare il dominio della borghesia minacciato dalla classe operaia. I neonati partiti comunisti, fondati sulla scia della Rivoluzione russa, erano troppo deboli e inesperti per guidare alla vittoria queste esplosioni rivoluzionarie.

Il mondo capitalista circondò ed isolò l’Unione Sovietica. Dal 1918 al 1920 la rivoluzione dovette combattere una guerra civile per poter sopravvivere, dopo l’intervento di tutte le grandi potenze imperialiste dalla parte delle Guardie bianche controrivoluzionarie. L’economia, già arretrata di partenza, uscì quasi completamente distrutta dalla Prima guerra mondiale e dalla successiva guerra civile. Il focoso proletariato che aveva fatto la Rivoluzione del 1917 era ormai quasi scomparso come classe e la carestia imperversava nelle campagne. Ma persino in queste condizioni, quando una straordinaria crisi rivoluzionaria scosse la Germania nel 1923, gli operai dell’Unione Sovietica furono pronti a sostenerne la causa. Gli operai tedeschi facevano affidamento come loro guida sul Partito comunista tedesco, il Kpd. Ma la direzione del Kpd cercava un “alleato” nella sinistra della socialdemocrazia e si lasciò sfuggire l’occasione per un’insurrezione proletaria.

Questa sconfitta ebbe un enorme effetto in Unione Sovietica, provocando un’ondata di demoralizzazione tra il proletariato, che era già in ginocchio. Fu in queste condizioni di miseria e arretratezza e a causa dell’isolamento dello Stato operaio sovietico, che si sviluppò una burocrazia conservatrice e nazionalista, capeggiata da Stalin. All’inizio del 1924 questa burocrazia strappò il potere politico dalle mani del proletariato e della sua avanguardia rivoluzionaria. La burocrazia, ripudiando il programma dell’internazionalismo proletario rivoluzionario che aveva portato alla vittoria della rivoluzione bolscevica, e che continuava ad essere difeso dall’Opposizione di sinistra di Trotsky, formulò la “teoria” anti marxista del “socialismo in un paese solo” per giustificare il suo dominio sul piano ideologico. La burocrazia consolidò il suo potere distruggendo l’intera direzione del Partito bolscevico con le sanguinose epurazioni degli infami Processi di Mosca. Da strumento della rivoluzione mondiale, l’internazionale comunista fu trasformata in strumento ausiliario dei tentativi del Cremlino di arrivare ad una “coesistenza pacifica” con l’imperialismo in nome della “costruzione del socialismo in un paese solo”.

Come abbiamo scritto in “Quando avvenne il Termidoro sovietico?”, uno dei primi articoli tradotti in russo per il nostro intervento in Unione Sovietica: “Dopo il gennaio del 1924, le persone che governavano l’Urss, il modo in cui l’Urss era governata e gli obiettivi per cui era governata erano tutti cambiati” (Spartacist n. 43-44, edizione inglese, estate 1989). Ma si trattò solo di una controrivoluzione politica, non di una controrivoluzione sociale. Le forme collettiviste di proprietà create dalla Rivoluzione d’Ottobre non furono distrutte ma sopravvissero come conquiste degli operai del mondo. Mentre lottavano instancabilmente contro la burocrazia stalinista, i trotskisti si batterono senza esitazione per difendere queste conquiste dall’imperialismo mondiale e dalla controrivoluzione.

Intanto la situazione era assolutamente instabile. Il dominio e i privilegi della burocrazia stalinista derivavano dalla sua posizione al vertice dello Stato operaio sovietico. Ma essa agiva allo stesso tempo da cinghia di trasmissione delle incessanti pressioni ostili dell’imperialismo mondiale, deciso a distruggere lo Stato operaio. Il “Programma di transizione” del 1938, il documento di fondazione della Quarta internazionale di Trotsky, definì l’Unione Sovietica uno Stato operaio burocraticamente degenerato, ed espose le due alternative storiche che lo attendevano:

“Il regime dell’Urss racchiude pertanto in sé delle contraddizioni terribili. Ma continua ad essere uno Stato operaio degenerato. Questa è la diagnosi sociale. La prognosi politica si configura come un’alternativa: o la burocrazia, diventando sempre di più l’organo della borghesia mondiale nello Stato operaio, rovescerà le nuove forme di proprietà, rigettando il paese nel capitalismo, oppure la classe operaia schiaccerà la burocrazia ed aprirà la via verso il socialismo”.

Ma questa situazione molto instabile e contraddittoria si protrasse per altri cinquant’anni. Come è possibile? La risposta sta nell’esito della Seconda guerra mondiale.

Dopo la Seconda guerra mondiale

Durante la Seconda guerra mondiale e per tutti gli anni a venire (come avete visto anche in occasione dei festeggiamenti per la vittoria di quest’anno), è stata raccontata la menzogna che la Seconda guerra mondiale fu una “grande guerra democratica contro il fascismo”. In realtà la Seconda guerra mondiale, come la Prima, fu una guerra interimperialista, una battaglia per il controllo sui mercati e per l’allargamento delle sfere d’influenza e di dominio tra le potenze imperialiste. La politica dei trotskisti, come già quella dei bolscevichi durante la Prima guerra mondiale, era stata di intransigente disfattismo verso tutte le borghesie imperialiste. Ciò significava lottare per trasformare la guerra imperialista in una guerra civile, una lotta proletaria rivoluzionaria contro tutti gli imperialismi belligeranti. Parallelamente i trotskisti lottavano perché la classe operaia del mondo accorresse alla difesa dell’Unione Sovietica dai colpi dei nemici capitalisti, qualunque campo essi occupassero.

Trotsky aveva giustamente previsto che la Seconda guerra mondiale avrebbe scosso la burocrazia e provocato scoppi rivoluzionari del proletariato, esattamente come era avvenuto alla fine della Prima guerra mondiale. Stalin portò l’Unione Sovietica sull’orlo del disastro: decapitò l’Armata Rossa e ignorò gli avvertimenti ripetuti e urgenti di eroiche spie sovietiche come Leopold Trepper nella Germania nazista o Richard Sorge in Giappone, che avvisavano dell’imminente invasione dell’Unione Sovietica da parte dei nazisti di Hitler. Ciononostante fu l’Unione Sovietica a sconfiggere i nazisti, a costo di più di 20 milioni di morti. Come osservò Cannon nel suo discorso del 1942:

“La forza economica del regime sovietico, la forza della tradizione rivoluzionaria, si riflettono oggi sul terreno militare. Tutto il mondo è stato sorpreso e meravigliato dalle prodezze militari dell’Armata Rossa. Tutti gli esperti militari contavano su di una sconfitta degli eserciti sovietici nel giro di poche settimane o mesi (...) I trotskisti non sono stati colti di sorpresa. Trotsky aveva previsto che l’attacco degli imperialisti contro l’Unione Sovietica avrebbe suscitato miracoli di entusiasmo proletario e di capacità combattiva nell’Armata Rossa. Fu in grado di farlo perché capiva meglio di chiunque altro che la grande forza motrice della rivoluzione vittoriosa non si era ancora del tutto esaurita. L’Armata Rossa che tutto il mondo saluta è l’esercito creato da una rivoluzione proletaria. La rivoluzione vive nella memoria del popolo sovietico. Questo fatto e le conquiste essenziali che continuano ad esistere e su cui essi si fondano, sono le basi grazie alle quali l’Armata Rossa ha potuto dispiegare una capacità di difesa, di resistenza e di sacrificio eroico che non hanno precedenti”.

Dopo aver sconfitto gli eserciti nazisti nella battaglia di Stalingrado, l’Armata Rossa dilagò nell’Europa dell’Est e giunse al cuore di Berlino, schiacciando il Terzo Reich. Gli altri governi dell’Europa dell’Est, che avevano quasi tutti collaborato con i nazisti, scapparono a presentarsi al più vicino quartier generale americano, lasciando dietro di sé un vuoto di potere. Dopo la guerra, gli imperialisti rivolsero le armi contro i vecchi “alleati” sovietici, lanciando una prima Guerra fredda volta a “contenere” e a distruggere l’Unione Sovietica. Di fronte alla ripresa dell’offensiva imperialista, gli stalinisti decisero di istituire degli Stati operai deformati in tutta l’Europa orientale e nella Germania dell’Est occupata dai sovietici, per farne una “zona cuscinetto”. Le classi dominanti, il cui potere era ormai spezzato, vennero espropriate. Tuttavia, ad eccezione della Jugoslavia, dove i partigiani di Tito vinsero sulla base di una guerriglia contadina, le espropriazioni avvennero dall’esterno, sotto forma di trasformazioni sociali a freddo imposte dall’alto. Questi Stati operai furono deformati sin dall’inizio, rispecchiando la degenerazione stalinista dell’Unione Sovietica, con il predominio di forme di proprietà collettivizzate e sotto il dominio politico di burocrazie nazionaliste. Il potere statale effettivo era nelle mani delle forze militari sovietiche, e ciò valeva principalmente per la Germania Est, lo Stato in cui fronteggiavano direttamente l’occidente imperialista.

L’espropriazione della borghesia e la creazione di Stati operai deformati fu un’enorme conquista, che noi abbiamo difeso. Ma come scrisse Trotsky riguardo all’occupazione sovietica della Polonia orientale prima della guerra, la questione decisiva fu l’impatto di quelle trasformazioni sociali “sulla coscienza e sull’organizzazione del proletariato mondiale, sull’accrescimento della sua capacità di difendere le vecchie conquiste e di ottenerne delle nuove”. Non furono questo tipo di coscienza o di organizzazione del proletariato a determinare le trasformazioni sociali dell’Europa dell’Est.

Pur testimoniando quanto fosse ancora viva e radicata la memoria della Rivoluzione d’Ottobre, la vittoria sovietica sui nazisti venne sempre più trasformata dalla burocrazia stalinista in una forma di difensismo nazional patriottico. Alla fine della guerra si verificarono situazioni rivoluzionarie in Italia e in Grecia, e vi furono scioperi di massa in Francia, Belgio ed altri paesi. Ma i partiti stalinisti disarmarono queste lotte, talora politicamente, talora nel vero senso della parola. Questi partiti sfruttarono l’autorità guadagnata grazie alla vittoria sovietica, per propugnare un programma di collaborazione di classe che consisteva nel mantenere la pace sociale con la cosiddetta borghesia “democratica”. In questo senso, per quanto riguarda il criterio politico decisivo dell’impatto sulla coscienza, l’organizzazione e la capacità del proletariato di lottare per difendere le vecchie conquiste e strapparne di nuove, il ruolo degli stalinisti confermò quanto aveva scritto Trotsky: “Da questo punto di vista, che è poi l’unico decisivo, la politica di Mosca, presa nel suo complesso, mantiene completamente il suo carattere reazionario e resta l’ostacolo principale sulla via della rivoluzione mondiale”.

La seconda Guerra fredda e il disfacimento del “socialismo in un solo paese”

L’Unione Sovietica ha dimostrato l’enorme superiorità di un’economia collettivizzata e pianificata rispetto al capitalismo sul terreno economico. Una superiorità tuttavia distorta, limitata e deformata dalla burocrazia e dal suo dogma, il “socialismo in un solo paese”. Trotsky analizzò le gigantesche contraddizioni dello Stato operaio degenerato sovietico nel suo libro del 1936, La rivoluzione tradita:

“Si possono costruire fabbriche giganti secondo i modelli importati dall’estero sotto il comando burocratico, pagandole, è vero, il triplo del loro prezzo. Ma più si andrà avanti, e più ci si scontrerà col problema della qualità, che sfugge alla burocrazia come un’ombra. (...) Nell’economia nazionalizzata, la qualità presuppone la democrazia dei produttori e dei consumatori, la libertà di critica e di iniziativa, tutte cose incompatibili con il regime totalitario della paura, della menzogna e dell’apologia”.

La pianificazione economica può essere efficace solo quando gli operai si identificano col governo che stabilisce i piani. Perché questo avvenga, è necessario che siano gli operai stessi a governare attraverso i soviet. Se vengono estraniati dal governo, qualsiasi piano si vedrebbe posto a testa in giù: può darsi che se ne raggiungano gli obiettivi, ma i prodotti saranno di cattiva qualità. Vi saranno sprechi di materie prime e le forniture statali verranno incanalate nel mercato nero. Tutte condizioni che si verificarono in Unione Sovietica nel corso dei decenni. Sul finire degli anni Settanta, le contraddizioni implicite nella “costruzione del socialismo in un paese solo” vennero drammaticamente alla ribalta.

Nella prima metà del decennio, l’Unione Sovietica aveva raggiunto grosso modo la parità militare con l’imperialismo Usa, che era intrappolato nella sua lunga (e perdente) sporca guerra vietnamita. L’economia sovietica ricevette grande impulso anche dalla crescita dei prezzi del petrolio sul mercato mondiale. Tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta le condizioni di vita della popolazione migliorarono enormemente. Anche gli Stati dell’Europa dell’Est ne trassero vantaggio, dato che l’Unione Sovietica li riforniva di petrolio ad un costo molto minore rispetto ai prezzi di mercato mondiali.

Ma tutto iniziò a cambiare nella seconda metà degli anni Settanta. L’imperialismo Usa, sconfitto dagli eroici contadini e operai vietnamiti, cominciò a riarmarsi, costruendo un gigantesco arsenale militare rivolto contro l’Urss, che era il bersaglio principale degli imperialisti sin dall’epoca della Rivoluzione del 1917. A cominciare fu il presidente Jimmy Carter, del Partito democratico, con la sua campagna per i “diritti umani” per un’accozzaglia di dissidenti sovietici. L’obiettivo in quel caso era il “riarmo morale” dell’imperialismo Usa, che doveva superare la grande sfiducia della popolazione americana nel governo e ripulire le logore credenziali “democratiche” e militari dell’imperialismo Usa.

La nuova Guerra fredda diventò rovente alla fine del 1979, quando l’esercito sovietico intervenne in Afghanistan. Come scrivemmo all’epoca in “Una questione che scotta: la questione russa” (Spartaco n. 1):

“L’Afghanistan è un lampo di luce che illumina gli effettivi contorni del panorama politico mondiale. Ha fatto a pezzi le ultime illusioni nella distensione rivelando l’implacabile ostilità dell’imperialismo americano nei confronti dello Stato operaio degenerato sovietico. Ha strappato ogni copertura diplomatica all’alleanza tra Washington e la Cina mao-stalinista e ha posto di fronte alla sinistra in modo inequivocabile la ‘questione russa’: la natura dello Stato originato dalla rivoluzione bolscevica e il suo conflitto con il capitalismo mondiale.

Per dei socialisti rivoluzionari non c’è nulla di ambiguo o di oscuro nella guerra in Afghanistan. L’esercito sovietico ed i suoi alleati nazionalisti di sinistra sono impegnati nella lotta contro un’accozzaglia anticomunista e antidemocratica di proprietari terrieri, usurai, capi tribù e mullah, difensori dell’analfabetismo di massa. E il dire che il sostegno imperialista a questa feccia sociale è aperto sarebbe davvero la scoperta dell’anno”.

La nostra posizione fu: “Vittoria all’Armata Rossa in Afghanistan! Estendere le conquiste della Rivoluzione d’Ottobre ai popoli afghani!”

Avrebbe dovuto essere un riflesso immediato, per chiunque si considerasse un militante di sinistra, quello di schierarsi dalla parte dell’Armata Rossa in una guerra in cui non combatteva solo in difesa delle donne da una barbara reazione, ma in difesa delle conquiste della Rivoluzione d’Ottobre. Ma la stragrande maggioranza della generazione di militanti di sinistra che, solo pochi anni prima, aveva manifestato in massa contro la guerra in Vietnam al grido di “Ho, Ho, Ho, Ho Chi Minh!”, si schierò invece al fianco dell’imperialismo Usa contro l’Armata Rossa. Gente come Tariq Ali, che durante la guerra del Vietnam era l’archetipo del radicalismo “antimperialista” (sembra persino che abbia ispirato “Street Fighting Man” dei Rolling Stones) non scendeva più in strada a combattere. Al contrario, latrava con gli imperialisti chiedendo il ritiro delle truppe sovietiche.

Fu un grande cambiamento di periodo politico. All’epoca della Guerra del Vietnam andava abbastanza di moda essere di sinistra. Allora la maggior parte della sinistra considerava il marxismo come la strada della liberazione, al di là del significato che poi gli attribuivano. Adesso invece il vento era cambiato: all’ordine del giorno c’erano l’anticomunismo e la Guerra fredda. Se già il sostegno della sinistra ai mullah di Khomeini nella “Rivoluzione iraniana” del 1979 era stato il segno premonitore del futuro appoggio alle forze della reazione islamica finanziate dagli imperialisti in Afghanistan, fu in Polonia, quando si gettò a corpo morto in braccio ai controrivoluzionari di Solidarnosc, che le cose cambiarono qualitativamente. Dopo tutto, non si trattava di un “movimento” che aveva la fiducia di masse di operai polacchi? Come era possibile?

Era il frutto amaro del malgoverno stalinista, un nodo venuto al pettine sotto il peso del debito estero ormai incontrollabile. Come ho già detto, all’inizio degli anni Settanta l’Unione Sovietica aveva fornito un aiuto importante agli Stati operai deformati dell’Europa dell’Est, soprattutto tagliando i costi del petrolio e di altre materie prime. Ma a metà degli anni Settanta i prezzi del petrolio furono rialzati e le forniture tagliate in modo da consentire ai sovietici di vendere sul mercato mondiale. Già questo di per sé condanna il “socialismo in un paese solo”. Contemporaneamente tutti questi paesi furono colpiti da una recessione capitalista mondiale, che ne fece crollare le esportazioni. Per mantenere i livelli occupazionali e gli standard di vita, i regimi stalinisti dell’Europa dell’Est si rivolsero agli squali del credito a Wall Street, alla City di Londra e alla Borsa di Francoforte. Dopo aver ipotecato il paese alle banche occidentali, per pagare i debiti questi regimi imposero i programmi di austerità sempre più duri imposti dall’Fmi. In Polonia la crisi economica gettò gli operai polacchi, che erano stati storicamente socialisti, nelle braccia di Solidarnosc, che era pesantemente appoggiato e finanziato dal Vaticano e dalla Cia.

Il regime di Gorbaciov

Ma tutte le contraddizioni, le deformità e i limiti del “socialismo in un solo paese” efficacemente analizzate da Trotsky nella Rivoluzione tradita, stavano per venire al pettine in Unione Sovietica. Sotto il corrotto regime di Breznev, sottoposto da un lato alla crescente pressione militare dell’imperialismo Usa e costretto dall’altro a cercare di conservare la stabilità politica interna puntellando il tenore di vita (per non parlare di quello che i burocrati si intascavano allegramente), la crescita economica si era quasi dimezzata. Di nuovo vediamo i limiti imposti dal dominio burocratico quando si tratta delle innovazioni tecnico-scientifiche necessarie a rinnovare l’industria sovietica. Poiché la burocrazia era nemica della democrazia operaia e dell’internazionalismo rivoluzionario, l’unico mezzo a sua disposizione per aumentare la produttività del lavoro stava nell’assoggettare gli operai e i manager alla disciplina della competizione sul mercato.

Il nuovo regime “modernizzatore” di Michail Gorbaciov, salito al potere nel 1985, introdusse la perestroika: le “riforme di mercato”. Al fine di aumentare la produttività si legarono i salari degli operai alla redditività; fu reintrodotto il cottimo che allargò le disparità salariali tra gli operai, i manager e l’élite dei tecnici. Singole fabbriche e interi rami industriali furono messi in condizione di dover lottare tra loro per accaparrarsi le risorse e i consumatori. Ciò alimentò il nazionalismo e spinse alla frantumazione dell’Urss, mettendo in competizioni le regioni ricche e industrializzate con quelle più povere e meno sviluppate.

Alla base delle disuguaglianze crescenti vi era il desiderio, specie nello strato più giovane dei funzionari burocratici e degli intellettuali, di arricchirsi a spese della classe operaia. Uno strato di privilegiati, in molti casi figli e figlie della burocrazia, era invidiosa del lusso in cui navigavano i loro equivalenti in Occidente. Questo portò ad espressioni sempre più esplicite di fiducia nella superiorità del capitalismo occidentale.

Per ridurre il peso delle spese militari di fronte all’escalation militare dell’imperialismo Usa, il regime di Gorbaciov offrì la sua “collaborazione” agli imperialisti.

In questo senso l’Afghanistan era cruciale e nel 1989 le truppe dell’Armata Rossa vennero ritirate. Pochi giorni prima della partenza degli ultimi soldati, il 7 febbraio 1989, il Partisan Defense Committee, l’organizzazione di difesa legale e sociale di lotta di classe affiliata alla Spartacist League/US, inviò un telegramma al governo afghano offrendosi di “organizzare subito una brigata internazionale per combattere sino alla morte” in difesa “del diritto delle donne a leggere, ad essere libere dal velo, libere dalla tirannia dei mullah e dei proprietari terrieri, ad avere accesso alle cure mediche e per il diritto di tutti all’educazione”. Pensavamo di coinvolgere in questa campagna internazionale combattenti da molte parti del pianeta, che avrebbero visto in questa brigata la possibilità di sferrare un duro colpo al sistema imperialista che li opprimeva e saccheggiava. Sapevamo anche che questo avrebbe avuto un effetto tra i veterani dell’esercito sovietico, che pensavano di svolgere in Afghanistan il loro dovere internazionalista. Sarebbe stata una leva importante per far avanzare il programma dell’internazionalismo rivoluzionario e della rivoluzione politica proletaria nella stessa Unione Sovietica.

Pur respingendo la nostra offerta di una brigata, il governo afghano ci chiese se potevamo lanciare una campagna pubblicitaria e di raccolta di fondi per gli abitanti della città di Jalalabad, che era assediata dai sanguinari mujaheddin. Raccogliemmo più di 44.000 dollari, in gran parte grazie a lavoratori e minoranze, molti dei quali originari della regione. Ma questa campagna ebbe un significato più ampio. Dimostrò quanto si facesse sentire, alla luce del tradimento in Afghanistan e degli sviluppi in Europa dell’Est, in Unione Sovietica e in Cina, la mancanza di un partito comunista degno di questo nome. E nel 1989 fondammo noi stessi la Lega comunista internazionale.

Il ritiro dall’Afghanistan aprì la diga alla marea controrivoluzionaria che avrebbe di lì a poco divorato l’Unione Sovietica. Nel 1992 lo ammise persino l’allora ministro degli esteri sovietico Eduard Shevardnadze: “La decisione di lasciare l’Afghanistan fu la prima, la più difficile. Poi tutto il resto venne da sé” (Washington Post, 16 novembre 1992). Meno di un anno dopo, i burocrati del Cremlino tolsero il tappo allo Stato operaio deformato tedesco orientale, consentendo l’annessione capitalista della Ddr nel Quarto Reich dell’imperialismo tedesco. Ne parleranno più tardi gli altri relatori.

Finirò col punto da cui sono partita. La nostra lotta in difesa delle conquiste che vivevano in questi Stati operai, per quanto mutilate e deformate dal malgoverno stalinista, e la nostra battaglia di oggi in difesa della Cina e degli Stati operai rimanenti, furono e sono parte della nostra lotta per nuove Rivoluzioni d’Ottobre. Come disse Trotsky: “Chi non sa difendere le vecchie posizioni non ne conquisterà mai di nuove”. Il periodo in cui viviamo, condizionato dalla distruzione del primo Stato operaio del mondo, è profondamente reazionario. Ma le lezioni delle lotte passate sono le munizioni che armeranno i nuovi quadri nelle lotte che sono destinate a scoppiare in futuro. In quelle lotte verranno forgiati i quadri che formeranno l’avanguardia rivoluzionaria, internazionalista, del proletariato, lo strumento per la liberazione socialista dell’umanità.