Spartaco n. 70

Ottobre 2008

 

Tibet

Abbasso le provocazioni del Dalai Lama e degli imperialisti!

Difendere lo Stato operaio deformato cinese!

15 aprile 2008 - “Un’orgia di rivolte anti-cinesi.” Ecco come l’Economist on-line (14 marzo), l’unico giornale ad avere un corrispondente straniero ufficiale a Lhasa, ha descritto le proteste nella regione autonoma del Tibet. Scatenate il 10 marzo per commemorare l’anniversario della rivolta del 1959 contro l’amministrazione cinese (una rivolta ispirata, armata e finanziata dalla Cia), le proteste sono state guidate da lama buddisti e sono state replicate da azioni coordinate nelle province cinesi del Gansu, Qinghai, Sichuan, dove risiedono significative popolazioni tibetane. C’è stata anche una marcia in India dal centro del “governo in esilio” del Dalai Lama. All’urlo di “Viva il Tibet” e “Viva il Dalai Lama”, rivoltosi guidati da monaci, spesso alla testa di bande di adolescenti, hanno assaltato il vecchio quartiere tibetano di Lhasa, bruciando e distruggendo negozi gestiti dall’etnia cinese e uccidendo almeno 13 persone. Tra coloro che sono stati assaltati vi sono anche cinesi di etnia Hui, una minoranza musulmana nella regione. L’Economist (22 marzo) ha riportato che “i negozi di proprietà di tibetani, resi riconoscibili con le tradizionali sciarpe bianche (…) sono stati risparmiati dalla distruzione”.

Le proteste in Tibet sono reazionarie, anticomuniste e controrivoluzionarie. Come trotskisti (vale a dire veri marxisti), noi della Lega comunista internazionale lottiamo per la difesa militare incondizionata dello Stato operaio deformato cinese contro gli attacchi imperialisti e la controrivoluzione capitalista, così come difendiamo anche gli altri Stati operai deformati della Corea del Nord, Vietnam e Cuba. La Rivoluzione del 1949, rovesciando il dominio capitalista in Cina, portò enormi benefici alle masse operaie e contadine di quel paese, incluso il popolo del Tibet che fino alla vittoria di forze cinesi nel 1959 era stato governato da una “Lama-crazia” filo schiavista. La causa del “Tibet libero” ebbe origine dalle macchinazioni della Cia e di altre forze imperialiste volte a restaurare il capitalismo in Cina e a riportare il paese sotto al giogo coloniale. La rivendicazione del “Tibet libero” è un grido di battaglia della controrivoluzione e se realizzata porterebbe al dominio imperialista sulle masse tibetane. La distruzione controrivoluzionaria dello Stato operaio deformato cinese sarebbe una tremenda sconfitta per il proletariato inter-nazionale, incluso il popolo tibetano.

Prima di essere schiacciata dall’Esercito popolare di liberazione nel 1959, la teocrazia lamaista in Tibet era forse, proporzionalmente, lo strato sociale dominante più grande e inattivo nella storia dell’umanità, mantenuto economicamente da contadini, coltivatori d’orzo e pastori di yak. In sostanza il lavoro di fatica era svolto principalmente da donne, poiché sia i monaci sia una parte non irrilevante della popolazione maschile, che emulava la vita monastica dopo aver commesso il “peccato” di procreare, erano dediti alla contemplazione.

Dopo aver represso nel 1959 l’insurrezione sostenuta dalla Cia, il governo cinese ha abolito l’ulag (il lavoro forzato dei contadini) e posto fine alle fustigazioni, alle amputazioni e alla mutilazione come forme di sanzione penale. La terra, il bestiame e gli strumenti di lavoro degli aristocratici fuggiti in esilio furono distribuiti ai contadini, così come i terreni e il bestiame dei monasteri che avevano partecipato alla rivolta. Lo Stato operaio deformato cinese introdusse l’istruzione laica e realizzò un sistema idraulico e una rete elettrica a Lhasa. Grazie a questo l’aspettativa di vita media dei tibetani, che era di 35 anni nel 1950, è salita a 67 anni nel 2001. La mortalità infantile, che era uno scioccante 43 per cento nel 1950, ha registrato un drastico calo fino a raggiungere lo 0,661 per cento nel 2000. La recente inaugurazione della ferrovia Qinghai-Lhasa, che collega il Tibet alla Cina, ha portato sviluppo economico e un miglioramento degli standard di vita. Questi miglioramenti testimoniano il progresso sociale prodotto dalla espropriazione della classe capitalista e dei latifondisti e dalla istituzione di forme di proprietà proletarie, con-seguenza della Rivoluzione cinese del 1949.

Soprattutto dopo la distruzione controrivoluzionaria degli Stati operai deformati dell’Est Europa e in particolare dello Stato operaio degenerato sovietico nel 1991-92, la Cina è sempre più nel mirino degli imperialisti. Per promuovere la controrivoluzione combinano crescenti pressioni militari alla penetrazione economica (resa possibile dalle aperture offerte dalla burocrazia stalinista di Pechino) con cui cercano di incoraggiare la controrivoluzione interna. La Cina, il più forte degli Stati operai deformati rimanenti, è circondata da un complesso sistema di basi militari statunitensi. Insieme alla Corea del Nord è nella lista dei potenziali obiettivi di un primo colpo nucleare del Pentagono, mentre il programma missilistico di difesa nazionale degli Stati Uniti ha l’obiettivo strategico di neutralizzare la modesta capacità nucleare cinese.

I governanti imperialisti sperano di trarre vantaggio dalle prossime Olimpiadi di Pechino 2008 per intensificare la loro pressione sulla Cina attraverso il sostegno al Dalai Lama. In una provocazione che presagiva i seguenti disordini in Tibet, nello spazio di cinque settimane a partire dallo scorso settembre, il Dalai Lama si è incontrato con il cancelliere tedesco Angela Merkel a Berlino, col presidente degli Stati Uniti Bush a Washington (la prima volta che un presidente in carica degli Stati Uniti incontra ufficialmente il Dalai Lama) e col primo ministro canadese Stephen Harper. Il primo ministro britannico Gordon Brown ha annunciato che ospiterà il Dalai Lama a Londra il prossimo maggio.

Mentre l’amministrazione Bush ha chiesto alla Cina di fare esercizio di “moderazione” in Tibet, i democratici hanno cercato di superare la banda di Bush quanto a bellicosità contro la Cina. Dopo lo scoppio dei disordini in Tibet, il portavoce della Camera dei rappresentanti, la democratica Nancy Pelosi, ha visitato la sede del Dalai Lama a Dharamsala, in India. In una dichiarazione del 12 marzo, Pelosi ha condannato “la violenta risposta da parte delle forze cinesi in Tibet contro manifestanti pacifici”. La candidata alle presidenziali, la democratica Hillary Clinton, ha rilasciato una dichiarazione che afferma che “la repressione cinese in Tibet continua,” e Barack Obama ha fatto eco alla Pelosi nel condannare “l’uso della violenza per reprimere proteste pacifiche”. In realtà, durante le violente manifestazioni, le forze di sicurezza della Cina “sembrano aver agito con relativa moderazione”, secondo l’Economist on-line (16 marzo).

Da parte loro i finti “socialisti” marciano a braccetto con i governanti imperialisti nel tentativo di fomentare la controrivoluzione in Cina, così come hanno sostenuto la distruzione controrivoluzionaria dell’Urss, una sconfitta storica mondiale per il proletariato, che ha portato devastazione e miseria ai popoli dell’ex Unione Sovietica. Fausto Bertinotti, ex leader di Rifondazione comunista, che ha appena rinunciato alla falce e martello (che per il Prc è sempre stata una maschera per una politica di collaborazione di classe con la borghesia), per un blocco elettorale borghese insieme a Verdi, Pdci e Sinistra democratica, ha incontrato il 1 aprile il presidente del parlamento tibetano in esilio Karma Chopel, sostenendo che “La richiesta di autonomia del Tibet è del tutto condivisibile. La comunità internazionale la sostenga” (Ansa, 1 aprile). Il candidato di Sinistra critica, Flavia D’Angeli, ha solidarizzato immediatamente con i lama, condannando la “repressione, condotta dal regime di Pechino” e chiedendo di “boicottare le Olimpiadi, dunque, come strumento di pressione internazionale” (Ansa, 15 marzo). Il Partito comunista dei lavoratori di Marco Ferrando si è schierato apertamente con le mobilitazioni reazionarie: “A Lhasa saremmo stati con i ragazzi sulle barricate e negli scontri di piazza, non solo con chi invoca la non violenza e le pressioni internazionali per risolvere la questione sul piano diplomatico” (“La posizione del Pcl su Tibet e Cina”, 1 aprile 2008, www.pclavoratori.it). Il Partito d’alternativa comunista, riconosce che i monaci buddisti sono reazionari appoggiati dagli imperialisti, ma sostiene comunque la “giusta lotta per l’autodeterminazione” (www.progettocomunista.org).

Questi nemici dello Stato operaio deformato cinese, oppositori del movimento operaio rivoluzionario interna-zionalista, sono disposti a consegnare le masse tibetane al ritorno della lama-crazia. Gli appelli degli pseudo-marxisti all’“indipendenza” sono persino a destra del Dalai Lama, che ha ammesso nel 2005: “Poiché lo sviluppo della Cina avanza ne possiamo trarre un vantaggio materiale, come le ferrovie. Se fossimo un paese separato sarebbe molto difficile per noi e non ne trarremmo alcun beneficio”(South China Morning Post, 14 marzo).

Modellato a sembianza dell’Unione Sovietica dopo che la burocrazia stalinista ebbe usurpato il potere politico della classe operaia, lo Stato operaio cinese fu deformato fin dall’inizio. Il Partito comunista cinese (Pcc) di Mao Zedong che guidò la Rivoluzione del 1949 non era un partito basato sulla classe operaia, ma piuttosto sui contadini. Sin dall’inizio, il regime del Pcc soppresse l’azione indipendente della classe operaia, escludendola dal potere politico. Rappresentando una casta burocratica nazionalista poggiante sull’economia collettivizzata, il regime stalinista di Pechino ha predicato la nozione profondamente anti-marxista che il socialismo, una società egalitaria senza classi, basata sull’abbondanza materiale, potrebbe essere costruito in un solo paese. In pratica, “il socialismo in un solo paese” significava accomodamento all’imperialismo mondiale e opposizione alla prospettiva della rivoluzione proletaria internazionale.

Nella loro inutile ricerca della “coesistenza pacifica” con l’imperialismo mondiale, gli artefici del malgoverno stalinista non fanno che minare la difesa dello Stato operaio cinese. Le dichiarazioni ufficiali di Pechino che condannavano i disordini in Tibet hanno attribuito la responsabilità esclusivamente al Dalai Lama, senza indicare il ruolo degli imperialisti. Ma come riportava il New York Times (22 marzo), in un articolo di Patrick French, ex direttore della “Campagna per il Tibet libero” di Londra: “La Campagna internazionale per il Tibet, che ha sede a Washington, è ora una forza più potente ed efficace sull’opinione pubblica globale che non il gruppo del Dalai Lama nel nord dell’India”. Questo sostenitore del “Tibet libero” ha continuato rilevando che “Le organizzazioni europee e americane pro-Tibet sono la mano che muove i fili del governo tibetano in esilio”. Ha anche rilevato che “dopo aver setacciato gli archivi di Dharamsala” ha verificato che non esistono prove “a sostegno della pretesa del suo e di altri gruppi per il ‘Tibet libero’, secondo cui 1 milione e duecentomila tibetani sono stati uccisi dopo l’ingresso dei cinesi in Tibet nel 1950”.

Allo stesso tempo, lo stalinismo cinese ha significato nazionalismo e sciovinismo Han. Durante la cosiddetta “Grande rivoluzione culturale proletaria”, iniziata a metà degli anni Sessanta, in cui Mao mobilitò milioni di studenti per rafforzare la sua posizione nella lotta intra-burocratica, Mao sottopose i tibetani ad un feroce sciovinismo grande-Han. La lingua tibetana e gli abiti tradizionali furono vietati. Molto di ciò che era stato al centro della cultura tibetana fu semplicemente distrutto, anche se con il benefico effetto collaterale di spingere i monaci a lavorare.

Dopo la morte di Mao, Deng Xiaoping tolse le restrizioni all’uso della lingua tibetana, all’abbigliamento e alle acconciature. I monasteri furono ricostruiti e restaurati e i monaci inattivi tornarono a frotte: erano 40 o 50 mila alla fine degli anni Novanta. Nel frattempo le “riforme di mercato” iniziate sotto Deng hanno aumentato i privilegi degli Han nella zona. Le reali conquiste portate alle masse tibetane dalla Rivoluzione cinese del 1949 convivono con persistenti disuguaglianze.

Oltre il 92 per cento della popolazione cinese è Han. E’ di vitale importanza per il proletariato cinese lottare contro lo sciovinismo Han della burocrazia stalinista ed opporsi ad ogni discriminazione nei confronti di tibetani, musulmani uighuri dello Xinjiang e delle altre minoranze etniche e nazionali. Quello di cui c’è bisogno è una lotta per spazzare via la burocrazia stalinista che governa la Cina e sostituirla con un regime basato sulla democrazia operaia, rappre-sentata dai consigli operai e contadini e radicata nell’internazionalismo marxista. Sarebbe una rivoluzione politica proletaria, non una rivoluzione sociale, basata sulla difesa dello Stato operaio cinese e sulla lotta per la rivoluzione socialista internazionale. La chiave per realizzare questa prospettiva è forgiare un partito trotskista in Cina. Il destino del popolo tibetano è indissolubilmente legato alla lotta per la rivoluzione politica proletaria in Cina e alla rivoluzione socialista nei paesi capitalisti del subcontinente indiano, in Giappone, negli Stati Uniti e in altri centri imperialisti.

Nel 1959, dopo la fallita insurrezione tibetana, James Robertson, uno dei leader fondatori della nostra tendenza internazionale e presidente nazionale della Spartacist League/U.S. scrisse un volantino che fu riprodotto in Young Socialist (giugno 1959), il giornale dei club dei giovani socialisti, precursori del gruppo giovanile dell’allora trotskista Socialist Workers Party (Swp). Robertson era un ex militante del partito di Shachtman, che aveva una posizione “terzocampista” verso l’Unione Sovietica (cioé non difendeva l’Urss). Ardente comunista, fu conquistato al trotskismo ed entro a far parte del Swp. Il volantino, intitolato “La brigata tibetana: lacrime di coccodrillo sulla tunica dei monaci” e distribuito dal Club Eugene V. Debs di Berkeley, fu la sua prima dichiarazione di difesa trotskista dell’Unione Sovietica. Il volantino diceva:

“La vera alternativa per il Tibet, se venisse meno il controllo cinese, non è di diventare una nazione indipendente, ma di cadere sotto la peggior dipendenza dalle armi, dal denaro e dai consulenti americani (…) La vittoria del governo comunista cinese è chiaramente la scelta progressista nel contesto attuale. Riconoscerlo non vuol dire giustificarne il regime. Pur se in modo distorto, questo fa parte dei grandi e positivi cambiamenti sul continente asiatico, cambiamenti che prima o poi segneranno anche la fine dei maoisti. Grazie a queste stesse conquiste il regime sarà rovesciato dalle masse desiderose di governare il proprio futuro senza l’intervento di un’élite privilegiata. Questo è il futuro, i governanti-monaci tibetani sono il passato”.