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Spartaco n. 67

Marzo 2006

Venezuela: nazionalismo populista contro rivoluzione proletaria

La campagna della Casa Bianca contro Chávez

L’imperialismo Usa continua a costituire un chiaro pericolo per il governo di Hugo Chávez in Venezuela. Da quando è stato eletto presidente nel 1998, Chávez ha sventato un breve golpe (nel 2002), un tentativo di vari mesi della borghesia venezuelana di bloccare la produzione petrolifera e un referendum revocatorio, tutti appoggiati da Washington. Se non si fosse ritrovata intrappolata in Iraq, la banda di Bush avrebbe potuto organizzare ancora altre provocazioni.

Tutto ciò che ha fatto di Chávez una spina nel fianco dell’arrogante governo americano, ne ha fatto altresì un idolo delle masse povere dei barrio del Venezuela e di molti giovani di sinistra in tutto il mondo. Chávez ha dato dell’imbecille (pendejo) a Bush e appoggia ostentatamente il nemico numero uno di Washington nell’emisfero occidentale: il leader cubano Fidel Castro. Chávez ha condannato l’occupazione americana dell’Iraq e la politica “neoliberista” promossa dagli Usa in America latina e non solo. Ha lanciato vari programmi sociali a vantaggio dei poveri delle città e delle campagne venezuelane, e ha messo in imbarazzo l’amministrazione Bush offrendo aiuti ai poveri di New Orleans. Di recente il Venezuela, attraverso la società Citgo, controllata dal governo, ha iniziato a fornire gas e combustibile a buon mercato ai poveri del Bronx e di alcune zone del Massachussets per riscaldarsi durante l’inverno.

Lo scorso gennaio, quando Chávez ha parlato dal palco del Forum sociale mondiale di Porto Alegre, in Brasile (un evento sponsorizzato dagli imperialisti), dicendo che bisogna “trascendere” il capitalismo col socialismo, l’audience, in gran parte di sinistra, è scoppiata in cori da stadio del tipo “Olé, Olé, Olé, Chávez, Chávez.” Ma Chávez non è per niente socialista. Ex colonnello dell’esercito ed ora a capo dello Stato capitalista, è un nemico della lotta per il socialismo, della lotta per una rivoluzione operaia che espropri la borghesia. In verità Chávez appartiene a pieno titolo alla serie degli ufficiali dell’esercito borghese saliti al potere sulla base del populismo nazionalista, dal colonnello Juan Perón in Argentina negli anni Quaranta, al colonnello Gamal Abdel Nasser in Egitto negli anni Cinquanta. Negli anni Cinquanta e Sessanta, quando il mondo semicoloniale fu attraversato da movimenti nazionalisti appoggiati dai sovietici, ogni singolo demagogo capitalista del “Terzo mondo” sosteneva di essere ”socialista” o “marxista-leninista”. Nasser fu il padre del “socialismo arabo”. Nel 1956 sottrasse il Canale di Suez agli imperialisti inglesi e francesi e sancì una serie di nazionalizzazioni. Ma continuò a presiedere allo sfruttamento dei lavoratori egiziani per conto dell’imperialismo, attaccando gli scioperi, assoggettando i sindacati allo Stato capitalista, arrestando e torturando i comunisti.

Nell’eventualità di un altro golpe spalleggiato dagli Usa, noi marxisti internazionalisti, oppositori dell’imperialismo Usa, faremmo di nuovo appello alla classe operaia a mobilitarsi in difesa militare del governo di Chávez (si veda ad esempio “CIA Targets Chávez”, Workers vanguard n. 787, 20 settembre 2002). Allo stesso tempo ci opponiamo politicamente al regime nazionalista borghese di Chávez. Per quanto riguarda il referendum revocatorio organizzato nel 2004 dagli oppositori di destra del regime, abbiamo sostenuto l’astensione, invece di un voto contrario che sarebbe stato un voto di fiducia a Chávez. Come abbiamo scritto in “Fallito il complotto del referendum imperialista. Vince il presidente capitalista Chávez” (Workers vanguard n. 831, 3 settembre 2004): “La prospettiva immediata ed urgente non è solo quella di opporsi all’intervento dell’imperialismo Usa in Venezuela ed in ogni altro paese, ma di lottare per scuotere il sostegno del movimento operaio tanto a Chávez quanto ai suoi oppositori, di forgiare una partito operaio internazionalista rivoluzionario che guidi la classe operaia al potere”.

Al contrario, la stragrande maggioranza dei sedicenti socialisti e rivoluzionari lavorano come agenti stampa di “sinistra” della “rivoluzione bolivariana” di Chávez. In prima fila c’è la Corrente marxista internazionale (Cmi), fondata in Gran Bretagna da Ted Grant e oggi capeggiata da Alan Woods (in Italia, il gruppo di FalceMartello all’interno di Rifondazione comunista), autore di un panegirico intitolato “La Rivoluzione venezuelana – una prospettiva marxista” (2005). Mentre gli altri opportunisti di tanto in tanto muovono qualche critica a Chávez, Woods e il suo gruppo si vantano apertamente di essere i consiglieri “trotskisti” di questo caudillo dalla retorica di sinistra. Facendo passare Chávez per un difensore dei poveri e degli oppressi, la Cmi e gli altri contribuiscono a preparare i lavoratori per un massacro. Legare la classe operaia e le sue organizzazioni a qualsiasi governante borghese serve solo ad impedirne la lotta indipendente. Al contrario di gruppi come la Cmi, i marxisti cercano di preparare la classe operaia venezuelana a combattere efficacemente le forze omicide della reazione borghese, che siano capeggiate da Chávez o dai suoi oppositori borghesi.

Chávez e l’imperialismo

Se si analizzano gli argomenti con cui gli pseudo marxisti della Cmi giustificano il loro appoggio alla “rivoluzione bolivariana”, si possono chiarire le differenze tra il nazionalismo populista e il marxismo proletario. In un articolo comparso sul loro sito internet (www.marxist.com) il 1° marzo, col titolo “Il Presidente Chávez ribadisce l’opposizione all’imperialismo”, il portavoce della Cmi Jorge Martin afferma che al momento della sua ascesa al potere nel 1998 “Chávez non muoveva da un punto di vista socialista. Era deciso a risolvere i problemi della disuguaglianza, della povertà e della miseria di milioni di venezuelani. Ma all’inizio pensava che si potesse farlo rimanendo nei limiti del sistema capitalista”. Continua poi Martin:

“Poiché il Presidente Chávez voleva veramente risolvere questi problemi, l’oligarchia è passata in massa dalla parte dell’insurrezione armata contro il governo democraticamente eletto… E’ stata questa ricca esperienza di movimento rivoluzionario, che ha dovuto fronteggiare le costanti provocazioni della classe dominante, a spingere Chávez e molti nel movimento rivoluzionario bolivariano a trarre la conclusione che ‘E’ impossibile risolvere le sfide della lotta alla povertà, alla miseria, allo sfruttamento e alla disuguaglianza nei limiti del capitalismo’. (…) Questa dinamica di azione e reazione della rivoluzione venezuelana ricorda da vicino i primi anni della rivoluzione cubana. In un processo di attacchi e contrattacchi la direzione della rivoluzione cubana, che inizialmente non aveva intenzione di rovesciare il capitalismo, fu costretta a rovesciare il capitalismo per rispondere alle esigenze più immediate delle masse”.

Queste affermazioni sono tutte false o fuorvianti, ad eccezione di quella per cui Chávez non è partito (e non ci è mai arrivato) “ad un punto di vista socialista”. Più avanti parleremo dell’idea per cui “la direzione della rivoluzione cubana” debba essere un modello per i rivoluzionari in America latina. Per ora ci basta dimostrare che il paragone che la Cmi fa tra la Cuba di Castro e il Venezuela di Chávez fa a pezzi la verità. Quando l’esercito ribelle di Castro entrò all’Avana il 1° gennaio del 1959, l’esercito borghese e tutto ciò che restava dell’apparato statale su cui si basava la dittatura di Batista, il fantoccio degli Usa, si sgretolò. Quando Castro dichiarò che Cuba era “socialista”, nel 1961, la borghesia cubana, gli imperialisti Usa e i loro carnefici della Cia e della mafia, erano tutti scappati e tutte le proprietà private erano state espropriate, fino all’ultimo gelataio ambulante. Quello che ne risultò a Cuba fu uno Stato operaio burocraticamente deformato. Al contrario, Chávez è arrivato al potere alla testa dello Stato capitalista e lo sta governando. La borghesia venezuelana è viva e vegeta e gli imperialisti continuano a fare affari d’oro col Venezuela, al di là delle provocazioni e delle minacce della Casa Bianca.

La prima preoccupazione di Chávez, appena giunto al potere, è stata quella di “risolvere il problema” dei vacillanti profitti petroliferi del paese, che sono la linfa vitale della borghesia venezuelana. Si è dato subito da fare per mettere in riga i sindacati dei lavoratori petroliferi e per aumentare l’efficienza dell’industria petrolifera di Stato, facendo pressione sull’Opec perché aumentasse i prezzi del petrolio. E’ stato grazie a questo insieme di misure prese al fine di rafforzare la stabilità politica che inizialmente Chávez è stato appoggiato da gran parte della classe dominante venezuelana. Tra questi c’erano anche i suoi vecchi amici dell’alto comando dell’esercito, che hanno avuto un ruolo decisivo nel rimettere Chávez al potere dopo il golpe del 2002. Grazie all’impennata dei prezzi del petrolio, Chávez ha potuto utilizzare parte degli enormi profitti per finanziare una serie di misure sociali: ha triplicato gli investimenti nell’educazione, ha istituito delle cliniche gratuite e dei programmi di distribuzione di cibo ai poveri, ecc. Ma lo scopo di queste misure non è quello di provocare, ma di sventare una rivoluzione sociale legando ancor più fortemente le masse espropriate allo Stato venezuelano.

L’oligarchia venezuelana, più bianca del bianco, detesta profondamente Chávez, il sottufficiale venuto dal nulla che si vanta delle sue radici zambo (meticce africane e indigene). Ma Chávez serve gli interessi di classe della borghesia di Caracas e, per suo tramite, dell’imperialismo mondiale. Un articolo del New York Times del 3 dicembre intitolato “Chávez ridisegna il Venezuela col ‘Socialismo del Ventunesimo secolo’ ”, pur parlando della “agitazione nei consigli d’amministrazione” provocata dalla politica populista del governo, riportava lucidamente che “sinora non si è visto alcun esodo delle compagnie straniere che operano in Venezuela. Banche e compagnie petrolifere fanno profitti record grazie al prezzo del petrolio, che ha inondato di petrodollari il paese, il quinto maggior esportatore mondiale”.

Nel suo discorso di Porto Alegre, Chávez si è affrettato a rassicurare la borghesia venezuelana e i suoi padrini imperialisti che il suo non è “il tipo di socialismo che abbiamo visto in Unione Sovietica”, vale a dire un’economia collettivizzata e pianificata basata sul rovesciamento del dominio capitalista (che ha invece condannato definendola “capitalismo di Stato” e “perversione”). Ha detto chiaramente che la sua amicizia con il leader cubano non si estende all’economia collettivizzata: “Cuba ha un profilo, il Venezuela ne ha un altro”. Ha elogiato il Brasile di Lula, identificandosi con l’ex populista che ora mette in pratica le misure di austerità dettate dagli imperialisti. In breve, come ha detto Chávez stesso durante il suo show televisivo Alo Presidente lo scorso 22 maggio, la sua idea del “Socialismo del Ventunesimo secolo non è in contraddizione con le società private, non è in contraddizione con la proprietà privata”. E’ verissimo. Finché domina la proprietà privata capitalista le masse rimarranno oggetto di sfruttamento e di oppressione e lo sviluppo economico resterà subordinato ai dettami del mercato capitalista mondiale, in particolare a quelli dei monopoli petroliferi imperialisti. Le sofferenze delle masse povere delle città e delle campagne non possono essere alleviate in modo permanente senza distruggere lo Stato capitalista e rovesciare l’ordinamento sociale capitalista, fino ad arrivare, dopo una serie di rivoluzioni proletarie su scala internazionale, ad un ordinamento globale senza classi in cui tutte le forme di sfruttamento e di oppressione saranno eliminate.

Trotsky e la rivoluzione permanente

Fu questa concezione ad animare la Rivoluzione d’Ottobre del 1917. Gli operai russi, guidati dal partito bolscevico di Lenin e Trotsky, si organizzarono attorno ai propri interessi di classe in consigli operai democraticamente eletti (i soviet) e spazzarono via lo Stato capitalista, sostituendolo con uno Stato operaio. Gli operai, guidati dai bolscevichi, si misero alla testa di tutti gli oppressi, soprattutto dell’enorme esercito dei contadini poveri e senza terra, vedendo nella propria rivoluzione l’inizio di una lotta dei lavoratori contro il dominio del capitale, che si sarebbe necessariamente sviluppata su scala internazionale.

Questo è ben diverso da ciò che avvenne nella rivoluzione cubana. Il Movimento 26 luglio di Castro era formato da guerriglieri contadini e da intellettuali piccolo-borghesi declassati, estraniati dalla borghesia ma indipendenti dal proletariato. In condizioni normali i ribelli castristi avrebbero seguito le orme di innumerevoli movimenti dello stesso tipo in America latina, cioè si sarebbero appoggiati su di una retorica radicale per riaffermare il controllo della borghesia. Fu solo grazie a circostanze eccezionali (l’assenza della classe operaia come contendente per il potere in suo nome, l’accerchiamento ostile dei capitalisti e la fuga della borghesia nazionale, e il salvagente lanciato dall’Unione Sovietica) che il governo piccolo-borghese di Castro poté distruggere i rapporti di proprietà capitalisti.

L’esistenza dello Stato operaio degenerato sovietico fu cruciale in questo senso, poiché diede a Cuba l’assistenza economica e la protezione militare che contribuirono a fermare la mano della belva imperialista a sole 90 miglia di distanza. Ma a differenza dell’Unione Sovietica, dove l’originario programma internazionalista e rivoluzionario dell’Ottobre era stato calpestato da una burocrazia nazionalista e conservatrice che aveva usurpato il controllo del potere politico nel 1923-24, a Cuba lo Stato operaio fu sin dall’inizio burocraticamente deformato.

Rovesciando il dominio dei capitalisti, la rivoluzione cubana mise fine al saccheggio dell’isola da parte degli imperialisti e della locale borghesia. Noi facciamo appello alla difesa militare incondizionata di Cuba e degli altri Stati operai deformati (Cina, Corea del Nord e Vietnam) contro la controrivoluzione interna e gli attacchi imperialisti, esattamente come abbiamo fatto con lo Stato operaio degenerato sovietico quando esisteva.

La burocrazia stalinista castrista mina la difesa di Cuba, tra l’altro appoggiando e fornendo credenziali “rivoluzionarie” ad ogni specie di regimi capitalisti anti operai. Come abbiamo detto nella “Dichiarazione di principi e alcuni elementi di programma” della Lega comunista internazionale (Supplemento a Spartaco, aprile 1998):

“Sotto le più favorevoli circostanze storiche concepibili, i contadini piccolo borghesi sono stati capaci unicamente di creare uno Stato operaio burocraticamente deformato, cioè uno Stato dello stesso tipo di quello che è uscito dalla controrivoluzione politica di Stalin nell’Unione Sovietica, un regime antioperaio che bloccava la possibilità di estendere la rivoluzione sociale all’America latina e al Nord-america, e che ha soppresso lo sviluppo ulteriore di Cuba nella direzione del socialismo. Per mettere la classe operaia al potere politico ed aprire la strada allo sviluppo socialista si richiede una rivoluzione politica supplementare guidata da un partito trotskista. Con la distruzione dello Stato operaio degenerato sovietico e conseguentemente senza più un’ancora di salvezza subito disponibile contro l’accerchiamento imperialista, il ristretto periodo storico favorevole in cui forze piccolo-borghesi hanno potuto rovesciare il dominio capitalista locale si è chiuso, sottolineando la prospettiva trotskista della rivoluzione permanente”.

La teoria della rivoluzione permanente di Trotsky, confermata dalla Rivoluzione russa, sostiene che nei paesi in cui il capitalismo si è sviluppato in ritardo, i compiti storicamente legati alle rivoluzioni democratico-borghesi del diciassettesimo e diciottesimo secolo possono essere risolti solo col dominio di classe del proletariato. La borghesia dei paesi arretrati, per quanto radicali possano essere le dichiarazioni dei suoi rappresentanti, è troppo debole, troppo timorosa dell’ascesa del proletariato e troppo dipendente dall’ordinamento imperialista per risolvere i problemi della democrazia politica, della rivoluzione agraria e dello sviluppo nazionale indipendente.

A suo modo è molto indicativo che il demagogo capitalista Chávez idolatri Simón Bolívar, un uomo che Karl Marx descrisse, in una lettera ad Engels del febbraio del 1858 come “il più vile, il più volgare e il più miserabile straccione” (Carteggio, vol. III). Come spiegò chiaramente Marx in un contributo su Bolívar scritto per la Nuova Enciclopedia americana del 1858, il padre della patria del nazionalismo latino americano incarnava molti degli attributi della ritardataria borghesia semicoloniale del Sudamerica. Era venale, corrotto, vile e autoritario. Abbandonò più volte i suoi soldati sotto il fuoco nemico, pugnalò alle spalle i suoi compagni e ottenne le sue vittorie solo grazie alle forze dell’imperialismo britannico. Dopo il suo primo trionfo nel 1813, si fece tributare onori pubblici, sfilando su di un carro trainato da 12 giovani donne delle più importanti famiglie di Caracas e proclamandosi “dittatore e liberatore delle province occidentali del Venezuela”.

I “marxisti” bolivariani della Cmi ribaltano completamente la rivoluzione permanente, sostenendo che se una formazione borghese è veramente intenzionata a lottare per la democrazia, può in qualche modo superare le sue limitazioni storiche e realizzare non solo la democrazia ma persino il socialismo. Così il portavoce della Cmi, Jorge Martin, scrive: “L’idea centrale della teoria della rivoluzione permanente è che nei paesi coloniali ed ex coloniali la lotta per i compiti democratico borghesi, se portata avanti fino in fondo, deve portare (in maniere ininterrotta o permanente) alla rivoluzione socialista”. L’essenza programmatica della rivoluzione permanente è la lotta per l’indipendenza di classe del proletariato da tutte le ali della borghesia semicoloniale, per quanto “progressiste” o “antimperialiste” si proclamino. Questa lotta può essere portata avanti solo forgiando un partito operaio rivoluzionario ed internazionalista in opposizione a tutte le varianti di nazionalismo borghese.

Riforme o rivoluzione

Compito dei marxisti è strappare la maschera “socialista” dal volto del regime di Chávez, spiegare che rappresenta il nemico di classe. I gruppi che rivaleggiano in opportunismo con la Cmi, anche se non si limitano come questa a sbavare ai piedi di Chávez e della sua “rivoluzione bolivariana”, contribuiscono tuttavia anch’essi a dipingere il caudillo di sinistra come un potenziale alleato della classe operaia, per quanto parziale e inaffidabile. Ad esempio il Comitato per un’internazionale dei lavoratori (Cil) di Peter Taaffe, anch’esso originario della Gran Bretagna, elogia Chávez per aver lanciato un “dibattito sullo sviluppo del socialismo” che è “cruciale per l’ulteriore sviluppo della rivoluzione venezuelana”, ma si lamenta che “purtroppo” Chávez “non ha la prospettiva di estendere la rivoluzione socialista agli altri [!] paesi dell’America latina (“Venezuela: Socialism Back on the Agenda”, 6 ottobre 2005).

C’è poi la Lega per la quinta internazionale (L5i), centrata sul gruppo britannico Workers Power, che ha intitolato un capitolo del suo opuscolo Anti-Capitalism: A Rough Guide to the Anti-Capitalist Movement (2005) “Hugo Chávez: un nuovo leader per il movimento anticapitalista?”. In polemica con gli ammiratori degli zapatisti messicani, che credono sia possibile ottenere un cambiamento sociale senza prendere il potere, la L5i scrive:

“Chávez ha dimostrato perlomeno che non si possono ottenere delle vere riforme con le preghiere, che hanno dato ben pochi frutti ai contadini messicani, ma solo cercando di prendere il controllo del potere. L’errore di Chávez sta nel suo rifiuto di distruggere tutti quegli elementi dello Stato venezuelano, in particolare la magistratura e la polizia, che ostacolano e frustrano ogni progresso”.

Chávez non distruggerà certo gli organismi repressivi che sono il nucleo dello Stato (magistratura, polizia, sistema carcerario e “soprattutto” l’esercito), perché gestisce proprio questo Stato borghese. In Venezuela, spazzar via la dittatura del capitale significa spazzar via il regime borghese con la rivoluzione proletaria, non dare lezioni all’uomo forte capitalista come se fosse un volonteroso apprendista. In realtà (come lamentano anche i suoi cortigiani di sinistra) Chávez non ha nemmeno escluso i numerosi elementi recalcitranti dal comando dell’esercito e della polizia, cosa che succede sempre dopo tutti i golpe in America latina.

Dietro ad una patina di retorica pseudo leninista, la L5i promuove l’essenza del riformismo socialdemocratico: l’idea che non serve che lo Stato borghese sia schiacciato dal martello della rivoluzione proletaria, ma che si può riformarlo e spingerlo ad essere uno strumento della trasformazione sociale. In Gran Bretagna, sul terreno domestico di Workers Power, ciò ha storicamente preso la forma della lealtà servile al parlamentarismo filo capitalista del Partito laburista (in cui è totalmente sepolto il gruppo inglese della Cmi). In Venezuela, quella di nascondere il fatto che l’uomo forte populista Chávez è un nemico di classe della lotta proletaria per il socialismo.

Populismo e neoliberismo: due facce della stessa medaglia

Per capire la popolarità di Chávez e della sua “rivoluzione bolivariana” tra i giovani idealisti di sinistra (ma anche tra molti opportunisti decrepiti), bisogna vederla sullo sfondo della distruzione controrivoluzionaria dell’Unione Sovietica. Molti giovani di sinistra, martellati da più di dieci anni dalla propaganda sulla “morte del comunismo” tanto della destra quanto della “sinistra”, considerano la Rivoluzione d’Ottobre un “esperimento fallito”. Assieme ad essa rigettano anche la comprensione marxista che la classe operaia è l’unico artefice di una rivoluzione sociale contro l’ordinamento capitalista. Infine, si riduce in genere il capitalismo ad un insieme specifico di politiche economiche note col nome di “neoliberismo”: vaste privatizzazioni di servizi pubblici, distruzione dello Stato sociale, espansione senza ostacoli degli imperialisti.

La storia recente del Venezuela dimostra ampiamente che neoliberismo e populismo non sono che due facce della stessa medaglia, che vengono talora utilizzate dallo stesso regime borghese in periodi differenti. Per esempio Carlos Andrés Pérez, del partito dell’Azione democratica (Ad), viene ricordato sia come il presidente che ha nazionalizzato l’industria petrolifera e mineraria a metà degli anni Settanta, sia come il presidente che ha lanciato il trattamento da shock imposto dal Fmi. In passato nemmeno Ad lesinava quanto a retorica socialdemocratica e controllava la confederazione sindacale corporativista Ctv. Grazie all’impennata dei profitti petroliferi negli anni Settanta, la borghesia ha ammassato una ricchezza enorme. All’epoca Ad e il partito cattolico Copei (che è stato alternativamente alleato e rivale di Ad) dirigevano un regime in cui i salari degli operai erano i più alti di tutta l’America latina e che forniva un vasto sistema di controllo sui prezzi e di sussidi sui generi alimentari, sui trasporti, sull’educazione, sulla sanità, ecc. Ma negli anni Ottanta il boom del petrolio si chiuse, ed esplose invece la devastante bomba del debito estero verso gli imperialisti, che portò al crollo del livello di vita dei lavoratori, a vasti tagli ai servizi sociali e soffocanti misure di austerità. La percentuale della popolazione al di sotto della soglia di povertà raddoppiò, passando dal 36 al 66 percento tra il 1984 e il 1995. Col declino dell’industria e dell’agricoltura, un gran numero di ex operai sindacalizzati e di poveri delle campagne furono spinti a forza nella “economia informale” a salari bassissimi, cercando di sopravvivere come venditori ambulanti, servitori, lavoratori a giornata, ecc. Tra il 1988 e il 1995 il tasso di sindacalizzazione crollò dal 26,4 al 13,5 percento, riducendo la Ctv ad una riserva per uno strato relativamente privilegiato di lavoratori del settore petrolifero e del settore pubblico. Nel 1989, Pérez introdusse il suo paquetazo, il “pacchetto” di misure di austerità che scatenò una serie di proteste di massa brutalmente represse, il caracazo. In un articolo sulla politica venezuelana nell’era di Chávez (a cura di Steve Ellner e Daniel Hellinger, 2003), Kenneth Roberts scrive:

“La combinazione di polarizzazione sociale ed estraniazione politica si rivelò esplosiva dopo il 1989, quando i venezuelani si rivoltarono contro l’establishment politico, appoggiando una serie di leader indipendenti e di partiti di protesta. Alla fine degli anni Novanta, la delusione portò ad un ampio sostegno per un outsider politico consumato: un ex comandante dei paracadutisti che catturò l’immaginazione popolare guidando un tentativo fallito di golpe contro un regime democratico discreditato”.

Erano le condizioni classiche perché emergesse un uomo forte populista come Chávez.

Un altro esempio di populista nazionalista latinoamericano fu quello di Lázaro Cárdenas in Messico, che negli anni Trenta nazionalizzò le compagnie petrolifere straniere e fece importanti distribuzioni di terre ai contadini. Sconfisse anche degli scioperi e si assoggettò la classe operaia usando la confederazione sindacale corporativa Ctm. In un articolo scritto nel 1939 e intitolato “L’industria nazionalizzata e la gestione operaia”, Trotsky osservò:

“Nei paesi industrialmente arretrati il capitale straniero svolge un ruolo decisivo. Da ciò deriva la relativa debolezza della borghesia nazionale rispetto al proletariato nazionale. Ciò determina condizioni speciali per il potere dello Stato. Il governo si barcamena tra il capitale straniero e quello domestico, tra la debole borghesia nazionale e il proletariato relativamente forte. Questo conferisce al governo una natura bonapartista di una specie particolare. Lo solleva, per così dire, al di sopra delle classi. In effetti può governare solamente o facendosi strumento del capitalismo straniero e mantenendo il proletariato in catene con una dittatura poliziesca, o manovrando il proletariato e spingendosi al punto da fargli delle concessioni, in modo da guadagnare un certo spazio di manovra nei confronti dei capitalisti stranieri”.

Bonapartismo in Venezuela

In Venezuela negli anni Quaranta, il fondatore di Ad, Rómulo Betancourt (anche lui uno che parlava di socialismo) governò in combutta con i militari e ripulì i sindacati dai comunisti, trasformando la Ctv in un ausiliario corporativista sindacale di Ad. Chávez, che recita lo stesso copione, ha utilizzato le riforme sociali cercando di consolidare la sua base di appoggio tra i poveri. Il suo obiettivo è di utilizzare questa base come clava non solo contro i suoi nemici in seno all’oligarchia, ma specialmente contro la confederazione sindacale Ctv, i cui dirigenti centrali non solo appartengono a Ad, ma hanno legami con la Cia tramite la burocrazia sindacale dell’Afl-Cio americana.

Agitando la bandiera della “democrazia” nella Ctv, Chávez ha cercato di imbrigliare i sindacati. Quando entrò in carica nel 1998 disse che la Ctv “doveva essere demolita” e due anni dopo cercò, senza successo, di far passare un referendum antisindacale. Da parte loro, gli infami dirigenti filo imperialisti della Ctv si sono schierati con i padroni del petrolio e con gli altri settori anti chavisti della borghesia e dell’esercito nel fallito golpe del 2002 e nella lunga serrata/sciopero dell’industria petrolifera alla fine di quell’anno. Nell’aprile del 2003 le Forze operaie bolivariane (Fbt) della Ctv e altri burocrati sindacali chavisti hanno formato una nuova confederazione sindacale sotto l’ala del governo. Secondo il Ministero del lavoro di Chávez, la Unión Nacional de Trabajadores (Unt) è stata firmataria del 76,5% degli accordi sindacali del 2003-04, mentre la Ctv ha raggiunto appena il 20 percento. Adesso la Unt ha conquistato i favori dell’Organizzazione sindacale internazionale dell’Onu e del filo-imperialista Congresso delle Trade Union britanniche. E’ stata accolta con entusiasmo anche dalla sinistra su scala internazionale, anche da quei gruppi che pure fanno qualche tiepida critica a Chávez. Questi gruppi osannano soprattutto le occasionali occupazioni di fabbriche e l’appello della Unt alla “cogestione” (dipinta falsamente come “controllo operaio”), considerandola la prova che la “Rivoluzione bolivariana” non è solo il prodotto di una politica governativa ma è sospinta dalle lotte operaie alla base della società venezuelana.

Il giornale dell’International Socialist Organization (Iso) americana, Socialist Worker (5 agosto 2005), ha riportato estatico gli appelli dei dirigenti della Unt alla “formazione di un partito operaio di massa che lotti per la rivoluzione socialista in Venezuela”.

Su un tono un po’ più critico, l’Internationalist Group scrive nel giornale Internationalist (settembre-ottobre 2005): “L’Unt ha adottato un linguaggio socialista e arriva a criticare i piani di ‘cogestione’ del governo, chiedendo invece il ‘controllo operaio’. Ma nessuno dei principali settori dell’Unt ha adottato un programma rivoluzionario che miri a preparare una rivoluzione socialista. Invece cercano di spingere a sinistra il governo di Chávez”. Detto da un gruppo come l’Ig, è una maniera abbastanza morbida di descrivere una confederazione sindacale nata sotto l’ala del governo di Chávez.

Chi leggesse solo il loro ultimo articolo non si accorgerebbe che ancora nel novembre del 2000, l’Ig cantava una canzone diversa, come ad esempio nell’articolo intitolato “Contro Chávez, la borsa e l’Fmi. Venezuela: mobilitare il potere operaio per sconfiggere il referendum antisindacale!” L’articolo, che comparve in spagnolo sul suo sito web, dipingeva il populista venezuelano come un semplice fantoccio della borsa di Caracas e degli imperialisti, sminuendo i pericoli di un intervento degli imperialisti Usa, oltre che i legami organici esistenti tra la Ctv e i borghesi di Ad, e i suoi storici legami con le facciate “sindacali” della Cia in America latina.

Quello che ci colpì particolarmente all’epoca fu che l’Ig non descriveva la Ctv come un sindacato corporativo, omissione ancor più notevole dato l’uso che faceva di questa etichetta per giustificare il rifiuto di difendere la confederazione sindacale messicana Ctm dagli attacchi del governo. Notammo che: “Data la loro tradizione di accodarsi a tutti i nazionalisti ‘antimperialisti’ dal Messico a Portorico, ci si sarebbe potuti aspettare che l’Ig si accodasse anche al populista nazionalista Chávez” (“Ig on Venezuela: Opportunism Makes Strange Bedfellows”, Workers vanguard n. 787, 20 settembre 2002). Alla fine, fiutata l’aria che tirava, anche l’Ig è corso ad occupare il suo posto tra i tifosi di sinistra della “rivoluzione bolivariana”. E ha deciso di gettare la Ctv nell’immondezzaio.

A parole almeno, i dirigenti dell’Unt hanno senz’altro una linea più radicale degli amici della Cia al vertice della Ctv, ma non per questo sono meno legati al governo capitalista. A settembre, l’Unt e la Fbt hanno organizzato a Caracas un “laboratorio di educazione politica con la collaborazione del Ministero del Lavoro”, secondo un resoconto di Jorge Martin (www.handsoffvenezuela.org, 26 settembre 2005). Una mozione approvata in quell’occasione parla della “storica lotta per l’emancipazione della classe operaia”, del “socialismo, unica speranza delle classi oppresse del mondo” e della necessità di espropriare i mezzi di produzione. Ma come prefazione a tutte queste frasi roboanti, c’è la promessa abietta di “ratificare il ruolo guida del nostro presidente Hugo Chávez Frias in questa rivoluzione democratica e partecipativa”. Tutte le chiacchiere sulla rivoluzione socialista e sul partito operaio di massa non sono che aria fritta senza una lotta per l’indipendenza più completa e incondizionata del proletariato dallo Stato capitalista e dai suoi partiti politici.

La truffa della “cogestione”

I riformisti, strombazzando la truffa della cogestión promossa da Chávez e il “controllo operaio” di cui parla la Unt, non fanno che rafforzare la morsa imposta dallo Stato capitalista al movimento operaio venezuelano. Negli Stati Uniti, il Workers World Party esulta dicendo che “Gli operai prendono il controllo in Venezuela”: “Oggi in tutto il Venezuela gli operai spingono per la formazione di nuove organizzazioni operaie. Qui si impadroniscono delle fabbriche, lì sperimentano forme di cogestione. Gli operai sfidano i vecchi rapporti di classe e giungono collettivamente alla coscienza del loro ruolo storico nella lotta per il socialismo (Workers World, 5 maggio 2005).

In termini marxisti il controllo operaio non è un’istituzione, né una rivendicazione di cui si può richiedere l’attuazione alla borghesia. E’ una forma di doppio potere sul punto di produzione che si verifica durante una crisi rivoluzionaria, quando gli operai hanno il potere di impedire le azioni del management cui sono contrari. Può sfociare solo o nella presa del potere statale da parte degli operai tramite la rivoluzione socialista, ovvero nella riaffermazione del potere dei capitalisti con una controrivoluzione. Ciò che viene spacciato per “controllo operaio” dalla cinica “sinistra” chavista non è altro, in effetti, che un piano per istituzionalizzare la collaborazione di classe e legare ancor più le organizzazioni operaie ai capitalisti e al loro Stato. Non vi è nulla di nuovo in tutto ciò. In un articolo del 1940, “I sindacati nella fase di decadenza imperialista”, Trotsky scrisse:

“L’amministrazione delle ferrovie e del petrolio, ecc. tramite le organizzazioni sindacali non ha niente a che vedere con il controllo operaio sull’industria poiché, in sostanza, l’amministrazione si realizza tramite la burocrazia operaia, che è indipendente dagli operai, ma, in compenso, è completamente dipendente dallo Stato borghese”.

Il principale esempio di “controllo operaio” in Venezuela è quello delle cartiere della Venepal (ora Invepal). La società, che un tempo impiegava 1.600 operai, è fallita e al momento della sua nazionalizzazione nel gennaio del 2005 restavano soltanto 350 operai. La società, che dal 1997 era in cattive acque, non era riuscita a riprendere la produzione dopo aver appoggiato la serrata contro Chávez nel 2002. Alla fine i lavoratori si sono rivolti a Chávez che ha proceduto alla nazionalizzazione. Tuttavia inizialmente la società doveva essere gestita dallo Stato, e solo in un secondo tempo doveva essere trasformata in una struttura cogestita dagli operai e dallo Stato sotto la supervisione diretta del Ministro del lavoro, María Cristina Iglesias. Sei mesi dopo che la Cmi aveva gridato al “socialismo” grazie alla nazionalizzazione della Venepal, gli stessi seguaci di Grant sono stati costretti ad ammettere in un articolo su internet (18 luglio 2005), che “i capi del sindacato hanno intrapreso i passi necessari allo scioglimento del sindacato e sperano di poter comprare la parte di proprietà dello Stato in modo da diventare gli unici proprietari e trattenere tutti i possibili profitti della produzione” (Jorge Martin, “Chavez Announces Expropriation of Closed Factories”).

Un altro esempio di “cogestione” è quello dell’Alcasa, una società produttrice d’alluminio di Ciudad Guayana, il cui consiglio d’amministrazione adesso include due direttori eletti dagli operai e quattro nominati dallo Stato, secondo un resoconto del Militant (15 agosto 2005), il giornale del Socialist Workers Party americano. Un dirigente del locale sindacato Sintralcasa ha detto di essere contrario alla nazionalizzazione completa, spiegando che “dipendiamo moltissimo dall’economia degli Stati Uniti, perciò non siamo favorevoli ad abbattere l’impero”. Un altro ha detto: “Adesso che abbiamo la cogestione il sindacato non parla più di aumenti salariali” ed ha aggiunto “dobbiamo aumentare la produzione e ridurre i costi”.

Il Socialist Worker, giornale dell’Iso, rassicura i suoi lettori che “la cogestiòn non ha nulla in comune con la cogestione socialdemocratica”. In verità è proprio di questo che si tratta, una variante di ciò che in Germania va sotto il nome di Mitbestimmung (codecisione), attuata tramite i consigli di fabbrica (Betriebsräte) che per legge, se non sempre in pratica, includono i rappresentanti dell’azienda. Ma l’esempio forse ancor più vicino a quello del Venezuela è quello delle “autogestioni” dell’Algeria post coloniale all’inizio degli anni Sessanta. L’Union Générale des Travailleurs Algériens (Ugta) organizzò dei comitati indipendenti per l’autogestione operaia delle fabbriche e delle tenute agricole abbandonate dai colonialisti francesi al loro ritiro. Temendo che il suo governo venisse messo in discussione, il regime nazionalista borghese del Fln (Fronte di liberazione nazionale) di Ahmed Ben Bella, che ricorreva ad una fraseologia molto di sinistra, istituzionalizzò l’autogestione e irreggimentò ancor più i sindacati dell’Ugta sotto il controllo dello Stato. Una volta incatenato il potere della classe operaia, il “socialista” Ben Bella fu esautorato con un golpe di palazzo. Un ruolo centrale nel tradimento degli operai algerini fu svolto da Michel Pablo, che faceva da consigliere per il governo capitalista del Fln. L’opuscolo di Pablo, Il mondo in Rivoluzione, vantava il suo “contributo alla codifica e all’istituzionalizzazione dell’autogestione in Algeria, e alla stesura della Legge di riforma algerina e delle misure economiche e sociali del paese tra il 1962 e il 1965” (si veda “They Never Learn”, Wv n. 86, 21 novembre 1975). Qualche anno prima, in veste di dirigente centrale della Quarta internazionale trotskista, Pablo era stato l’artefice del programma liquidazionista responsabile della distruzione della Quarta internazionale. Oggi la Cmi di Alan Woods, la cui eredità politica risale direttamente a Pablo, aspira a svolgere in Venezuela lo stesso ruolo. La storia riserva un giudizio spietato alla “sinistra” che appoggia questo o quel caudillo capitalista con una fraseologia di sinistra. La strada che devono seguire tutti gli oppressi del Sudamerica non è quella di dipingere con tinte rivoluzionarie gli uomini forti nazionalisti, o spacciare come rivoluzioni delle avventure populiste. Al contrario bisogna costruire delle sezioni nazionali di una Quarta internazionale riforgiata nello spirito di un’ostilità rivoluzionaria senza compromessi verso ogni specie di governo capitalista. A Sud del Rio Bravo, questi partiti dovranno essere costruiti in una lotta politica contro le illusioni nel populismo e nel nazionalismo. Negli Stati Uniti, nel ventre della belva imperialista, un partito rivoluzionario operaio si costruirà nella lotta per separare il proletariato dai partiti del capitale, i repubblicani e i democratici, e nel rimpiazzare i vertici filo imperialisti dell’Afl Cio con una direzione di lotta di classe.

Tradotto da Workers Vanguard n. 860, 9 dicembre 2005

 

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