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Spartaco n. 73 |
Ottobre 2010 |
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Da Detroit a Pomigliano, dalla Polonia alla Serbia... Gli attacchi antioperai di Fiat/Confindustria vanno respinti con la lotta di classe! Costruire un partito rivoluzionario internazionalista Da mesi la Fiat ha lanciato una dura offensiva contro le decine di migliaia di lavoratori delle sue fabbriche. A gennaio, Marchionne ha annunciato la chiusura di Termini Imerese, una delle ultime concentrazioni industriali in Sicilia. A giugno ha firmato con i dirigenti traditori di Cisl, Uil e Ugl un accordo sull’Alfa di Pomigliano d’Arco che impone la cancellazione della pausa mensa, l’introduzione di ritmi di lavoro e di turni estenuanti e costringe i lavoratori a rinunciare al diritto di sciopero e alle garanzie del contratto nazionale. La Fiat ha anche creato una “newco” pronta ad assumere solo gli operai che accetteranno i diktat dell’azienda. Dopo aver succhiato alle casse dello Stato centinaia di milioni sotto forma di “piani di salvataggio”, sovvenzioni e incentivi, vogliono approfittare della povertà e della disoccupazione che due anni di crisi hanno imposto a centinaia di migliaia di lavoratori, per liberarsi della manodopera “in eccesso”, aumentare lo sfruttamento di quella rimasta e riprendere a macinare profitti. Incoraggiata dall’iniziativa Fiat, Federmeccanica il 7 settembre ha lanciato l’assalto agli operai dell’intero settore metalmeccanico, dando disdetta unilaterale al contratto del 2008, l’unico tuttora riconosciuto dalla Fiom, il più rappresentativo sindacato del settore. Poi è stato il turno di Fincantieri e Alitalia che hanno annunciato migliaia di licenziamenti.
I desideri dei capitalisti dovranno però fare i conti con la resistenza della classe operaia. Il 22 giugno, più del 40 percento degli operai di Pomigliano ha votato “no” all’accordo voluto dalla Fiat, sfidando la minaccia di chiudere la fabbrica e la canea reazionaria che ha visto uniti governo e opposizione parlamentare (con repubblica che inneggiava alla “rieducazione della fabbrica anarchica”). Il “no” di Pomigliano ha incoraggiato tutti i lavoratori e si è tradotto in scioperi di protesta nelle fabbriche Fiat e nella partecipazione numerosa e combattiva dei metalmeccanici allo sciopero della Cgil il 25 giugno e una serie di scioperi spontanei si sono verificati in fabbriche nell’indotto Fiat a Torino, nel modenese e altrove all’indomani della disdetta di Federmeccanica. Anche se la crisi continua a mordere e rende difficile scioperare, la classe operaia ha la forza per rovesciare questa marea di tagli, licenziamenti e cassa integrazione.
Se i sindacati fossero sconfitti (o svenduti dai burocrati che li dirigono) dove sono più forti, cosa succederebbe nelle fabbriche non sindacalizzate, nelle “cooperative” o nelle piccole aziende “in nero”, che spesso sfruttano lavoratori immigrati, privi di diritti ed esposti alla minaccia di deportazione se perdono il lavoro? A Milano si sono già visti i casi di Carrefour, che ha licenziato sessantadue lavoratori del magazzino, in gran parte immigrati, e quello della Cooperativa Papavero, che ha lasciato a casa quindici operai eritrei per aver scioperato le scorso inverno. E cosa succederà nelle altre fabbriche del gruppo Fiat all’estero, dove le condizioni di lavoro e salario sono già molto peggiori?
All’attacco della Fiat e degli altri capitalisti bisogna contrapporre una risposta di lotta di classe che si estenda a tutti i settori industriali e che rompa il cappio burocratico che sinora ha limitato le mobilitazioni alle sole aziende in crisi, isolandole e condannandole alla sconfitta. Di fronte alla minaccia di chiusura delle fabbriche o della cassa integrazione bisogna imporre che non venga tagliato nemmeno un posto di lavoro, ma che tutto il lavoro disponibile sia diviso tra tutta la manodopera esistente, inclusa quella attualmente disoccupata, a parità di salario e di condizioni di lavoro e con una scala mobile salariale che recuperi l’inflazione. La lotta deve estendersi al settore pubblico, che sotto la mannaia dei tagli di Brunetta e della Gelmini comincia anch’esso a mobilitarsi. Bisogna difendere il diritto di sciopero e lottare per dei sindacati industriali che unifichino e organizzino tutti i lavoratori di ciascun settore, in particolare i lavoratori immigrati, più ricattabili e doppiamente sfruttati. Se in Italia la manodopera della Fiat resta in prevalenza fatta di operai italiani, in tutto l’indotto, nelle piccole industrie metalmeccaniche e nella miriade di cooperative ad essa legate, lavorano decine di migliaia di operai immigrati, per i quali il “contratto nazionale” o l’esistenza stessa dei sindacati è un miraggio. Gli immigrati non sono solo discriminati sul posto di lavoro, ma i loro stessi diritti di cittadinanza sono negati dalla società capitalista e da governi che impongono una miriade di forme di oppressione razzista. La lotta per gli interessi del movimento operaio richiede una lotta per difendere gli immigrati e la rivendicazione dei pieni diritti di cittadinanza per chiunque vive in questo paese.
Non esistono soluzioni sindacali semplici, da contrapporre ai tagli e ai licenziamenti, specialmente in un periodo di crisi. La difesa seria degli interessi vitali dei lavoratori si scontra necessariamente con l’intero sistema della produzione capitalista. I lavoratori devono rifiutare l'idea che di fronte alla crisi “tutti” devono fare dei sacrifici per tenere a galla la barca del capitalismo. Bisogna partire non dalle esigenze di competitività e redditività delle imprese capitaliste, ma dalle esigenze vitali di milioni di lavoratori. La prima di queste esigenze è quella di lavorare. Serve un vasto piano di opere pubbliche che rinnovi ed estenda la rete di infrastrutture fatiscenti di questo paese (strade, ferrovie, acquedotti, scuole, ospedali...) e che impieghi le centinaia di migliaia di lavoratori disoccupati o interinali in posti di lavoro sindacalizzati e con salari contrattuali.
Queste esigenze fondamentali della classe operaia non possono essere certo realizzate dalla classe dominante capitalista o dai suoi governi, né si possono ottenere tramite delle riforme parlamentari. Richiedono una mobilitazione di massa della classe operaia alla testa di tutti gli strati oppressi della società, che punti ad instaurare un governo operaio basato su organismi di potere della classe operaia, come consigli di fabbrica o soviet. Di fronte all’anarchia economica del sistema dei profitti, bisogna battersi per l’espropriazione dei mezzi di produzione e la loro gestione collettivizzata e pianificata a livello centrale e a scala internazionale.
Ma chi può guidare queste lotte? Molti dirigenti sindacali sono giustamente visti come corrotti e venduti ai capitalisti. L’8 settembre alla festa del Pd di Torino il leader della Cisl Raffaele Bonanni è stato accolto da parte di una cinquantina di lavoratori, studenti e precari con urla, fischi, e con uno striscione che lo accusava di essere al soldo dei padroni. La direzione Fiom ha guadagnato autorità (e tessere) tra i lavoratori metalmeccanici dopo essersi opposta, sebbene blandamente, all’arroganza di Marchionne che la vuole in ginocchio. In realtà i dirigenti Fiom son ben disposti a venire a patti con le esigenze capitaliste della Fiat di aumentare lo sfruttamento operaio, a patto che venga trattato con loro. Sulla Fiat Giorgio Cremaschi ha dichiarato “Non c’è da dialogare, c’è da riconoscere, cosa che Marchionne non fa, che l’impresa è fatta di due interessi che hanno pari legittimità: quello dell’imprenditore e quello dei lavoratori.” (liberazione.it, 7 agosto 2010). Equiparare l’interesse degli operai a difendere il proprio posto e la propria misera paga, all’interesse degli imprenditori di aumentare sempre di più i profitti che traggono dallo sfruttamento di quegli stessi operai, la dice lunga su da che parte stanno i dirigenti della Fiom. Come scrisse il comunista americano James P. Cannon:
“Si tratta semplicemente di una lotta a cornate tra due forze i cui interessi sono in costante e inconciliabile conflitto. La collaborazione tra lavoratori e capitalisti è una balla. La questione in gioco ogni volta viene decisa dalla forza relativa delle forze che in quel momento si scontrano. L’unica strategia per uno sciopero che valga qualcosa deve partire da questa idea. (
) Dal nostro punto di vista, gli operai hanno perfettamente diritto a controllare interamente l’industria e i suoi frutti. I padroni da parte loro (non solo gli armatori, i padroni sono tutti uguali), vorrebbero una situazione in cui gli operai sono privi di qualsiasi organizzazione e del diritto di parola sul loro lavoro, e ricevono una paga sufficiente solo a tenere insieme anima e corpo e a crescere una nuova generazione di schiavi che prendano il loro posto quando muoiono sul lavoro. Ogni punto intermedio tra questi due estremi è solo una tregua temporanea, la cui natura è decisa dalla forza. Non c’entra niente ‘la giustizia’. Gli operai non avranno giustizia finché non avranno conquistato il mondo”. (James P. Cannon, “The Maritime Strike”, 28 novembre 1936)
Per poter condurre e vincere questa lotta la classe operaia ha bisogno di un partito rivoluzionario basato sul programma internazionalista del leninismo e del trotskismo.
Una nuova direzione rivoluzionaria
Il “no” della Fiom all’accordo di Pomigliano ha suscitato forti aspettative nella possibilità dei metalmeccanici di porsi alla testa delle lotte operaie. Con i suoi trecentomila iscritti, concentrati nel cuore produttivo del capitalismo italiano, la Fiom rappresenta la componente più combattiva e potente del proletariato e un ostacolo decisivo che i padroni devono spezzare per poter aumentare il tasso di sfruttamento della classe operaia. Ne è sicuramente consapevole la dirigenza Fiat, che dopo il referendum di Pomigliano ha lanciato una violenta campagna contro la Fiom (e contro i Cobas), licenziando immediatamente 5 attivisti sindacali in diverse fabbriche, con l’accusa di “sabotaggio” per aver partecipato a scioperi e cortei interni e rifiutandosi di riammetterli in fabbrica persino dopo che i tribunali borghesi hanno annullato i licenziamenti.
Se è giusto che gli operai abbiano aspettative nei confronti di un sindacato potente come la Fiom, devono invece rigettare qualsiasi illusione nella sua attuale direzione burocratica. Anche se i vari Rinaldini e Cremaschi si posizionano più a sinistra della maggioranza della Cgil, condividono con il resto della burocrazia sindacale l’idea che il sindacato debba garantire innanzitutto la “competitività” e la redditività degli sfruttatori capitalisti, in modo che questi abbiano qualche briciola da concedere ai lavoratori. Così i burocrati Fiom hanno siglato lo scorso 7 aprile un accordo che permetteva all’azienda di licenziare cinquecento lavoratori e Rinaldini ha pure firmato con la Fiat un altro accordo che ha permesso all’azienda di ripristinare un reparto confino (quello di Nola) dove sono stati spediti i militanti sindacali più combattivi o i lavoratori meno produttivi.
La collaborazione dei dirigenti della Fiom con la borghesia non è solo a livello sindacale. Nel corso degli ultimi quindici anni, i dirigenti della Fiom (spesso dirigenti di Rifondazione), hanno appoggiato la politica di collaborazione di classe con la borghesia di quel partito che si è concretizzata nei vari governi dell’Ulivo e dell’Unione e che per gli operai ha significato privatizzazioni massicce, introduzione di un precariato selvaggio, riduzione del potere d’acquisto del 20 percento e una miriade di tagli a sanità, istruzione e assistenza sociale. Per condurre la lotta della classe operaia serve una direzione dei sindacati che si fondi sulla lotta di classe e sulla prospettiva del potere operaio.
La storia delle lotte operaie alla Fiat mostra quanto la classe operaia sia capace di lottare con coraggio e tenacia, e anche quanto l’assenza di una direzione rivoluzionaria lasci la strada aperta alle svendite più odiose. Nell’autunno 1980, in risposta alle persecuzioni della Fiat contro attivisti sindacali e militanti di sinistra e alla minaccia di licenziare 14 mila lavoratori, gli operai della Fiat bloccarono completamente la produzione per 35 giorni, occupando Mirafiori e issando il ritratto di Karl Marx sui cancelli. Lo sciopero della Fiat suscitò la solidarietà e la speranza di tutti gli operai, ma le direzioni della Cgil e del Pci, come parte della politica di “compromesso storico” con la Democrazia cristiana, lo tennero isolato e alla fine lo svendettero in cambio di 34 mesi di cassa integrazione! La sconfitta dello sciopero alla Fiat del 1980 fu un duro colpo al movimento sindacale in Italia e aprì la strada a un decennio di sconfitte operaie. Come scrivemmo all’epoca: “Gli operai non sono stati sconfitti da un nemico più forte, né dalla loro passività o mancanza di combattività (...) Le cause di questa sconfitta risiedono invece nel tradimento dei vertici burocratici e nell’assenza di una forte opposizione rivoluzionaria organizzata nei sindacati” (Spartaco n.2, gennaio 1981).
Oggi la maggioranza della classe operaia non identifica le sue lotte immediate con la prospettiva di una rivoluzione socialista, seppure in modo disomogeneo nei diversi paesi. Questo è il frutto della colossale sconfitta storica rappresentata dalla controrivoluzione capitalista che ha distrutto l’Unione Sovietica, lo Stato operaio nato dalla Rivoluzione d’Ottobre, che nonostante la sua degenerazione burocratica sotto il dominio della casta parassitaria stalinista, rappresentava un’enorme conquista per tutti gli operai, che andava difesa dalla restaurazione del capitalismo e ripulita dai parassiti stalinisti con una rivoluzione politica proletaria. La costruzione di una nuova direzione rivoluzionaria, basata sul programma marxista per la rivoluzione proletaria internazionale, resta ancora il compito principale per chi vuole respingere gli attacchi dei capitalisti e lottare per una società liberata da sfruttamento e oppressione.
La classe operaia di fronte alla crisi capitalista
Due anni e mezzo di crisi capitalista, la più dura dopo la grande depressione iniziata nel 1929, hanno imposto un prezzo agghiacciante alla classe operaia e alla popolazione povera di tutto il mondo. Nei paesi dell'Unione Europea, 23 milioni di operai hanno perso il lavoro e tra i giovani al di sotto dei 25 anni, la disoccupazione è al 20 percento (25 percento in Italia). Per non parlare dei paesi del mondo semi coloniale, dove la recessione si è innestata sulla miseria diffusa, gettando nelle file dell’esercito di affamati che raccoglie un sesto dell’umanità altri 130 milioni di persone. Per di più la crisi è arrivata alla fine di un ventennio in cui le classi dominanti, galvanizzate dalla controrivoluzione capitalista che ha distrutto l'Unione Sovietica e gli Stati operai deformati dell'Europa dell'Est, si è dedicata con successo a smantellare molte delle conquiste e delle concessioni che aveva dovuto fare alla classe operaia. In Italia, solo negli ultimi 15 anni i padroni hanno sottratto ai salari circa l'8 percento del prodotto interno lordo (circa 130 miliardi di euro all'anno, più di 5 finanziarie!)
I governi borghesi di tutta Europa (inclusi quello “socialista” di Zapatero o quello di “sinistra” del Pasok) sono intenzionati a succhiare il sangue alla classe operaia e alla popolazione lavoratrice per ripagare il costo degli ultimi due anni di crisi capitalista, in cui hanno saccheggiato le finanze pubbliche per riempire le tasche dei finanzieri e salvarli dalla bancarotta da loro provocata. Per calmare i mercati, i governi capitalisti sono corsi ad annunciare giganteschi tagli di bilancio, licenziamenti e aumenti delle tasse a partire dalla Grecia, dove il governo del Movimento socialista panellenico (Pasok) di George Papandreu ha imposto una serie di misure che rigettano indietro di cinquant'anni le condizioni di vita della popolazione, in cambio del “piano di salvataggio” ottenuto dall'Unione Europea e dal Fondo monetario internazionale. In Italia il governo Berlusconi, col sostegno del Partito democratico che per bocca di Prodi ha dichiarato che la manovra era “in continuità” con la politica del suo governo ha approvato tagli feroci per 24 miliardi di euro, approfittandone per congelare per tre anni gli stipendi dei dipendenti pubblici e per aumentare di cinque anni l'età pensionabile per le donne. La Spagna ha annunciato 15 miliardi di euro di tagli nei prossimi due anni, la Germania 80 miliardi in quattro anni. In Gran Bretagna il nuovo governo di coalizione conservatore-liberale ha annunciato tagli devastanti per 113 miliardi di sterline.
Se i capitalisti d'Europa sono decisi a far pagare la crisi ai lavoratori, e se i burocrati sindacali e i partiti riformisti fanno gli straordinari per tenere a freno il malcontento, la classe operaia ha dimostrato di non essere intenzionata ad ingoiare tutto in silenzio. In Grecia ci sono stati cinque scioperi generali e innumerevoli altri scioperi nei primi sei mesi dell'anno. Il 27 maggio, e poi il 7 settembre centinaia di migliaia di lavoratori hanno manifestato in tutta la Francia contro l'annuncio di nuovi attacchi alle pensioni. L'ascesa di un'ondata di lotta di classe, che diviene di giorno in giorno più necessaria se non vogliamo che il proletariato venga rigettato all'indietro di decenni, richiede la formazione di partiti rivoluzionari che possano guidare il proletariato alla testa di tutti gli oppressi, nella lotta per spazzar via il sistema economico della bancarotta capitalista.
Quello che i capitalisti chiamano “eccesso di capacità produttiva” non si riferisce a un eccesso rispetto al bisogno dell’umanità, ma eccesso rispetto alla loro possibilità di trarne profitto sul mercato. Miliardi di persone continuano ad avere bisogno di automobili, di case, persino di cibo, di beni indispensabili che non possono ottenere. Questa contraddizione, il conflitto tra la vasta natura sociale delle forze produttive, e la proprietà privata dei mezzi di produzione nelle mani di un pugno di capitalisti, è il tratto fondamentale dell’intera economia capitalista, ed è la causa delle crisi economiche come quella attuale.
Finché esisterà il capitalismo, questa contraddizione la pagheranno ogni giorno milioni di lavoratori, sotto forma di sfruttamento, povertà, disoccupazione e guerre. L’unica via d’uscita dall’anarchia distruttiva del sistema di produzione capitalista che frena e impedisce lo sviluppo della civiltà umana, è un’economia collettivizzata e pianificata a livello internazionale per soddisfare i bisogni di masse di milioni di persone e non i profitti di una manciata di capitalisti. Un’economia socialista a scala internazionale porrebbe le basi per un vasto aumento della produttività del lavoro umano e utilizzerebbe i suoi prodotti per soddisfare in maniera razionale ed egalitaria i bisogni dell’umanità, eliminando la miseria, la disoccupazione e le crisi e strappando alla radice ogni forma di oppressione sociale e nazionale. Per questo, gli operai devono spezzare il potere della classe dominante capitalista e la macchina repressiva del suo Stato con una rivoluzione socialista.
Una prospettiva internazionalista rivoluzionaria
La crisi globale degli ultimi due anni ha esacerbato la competizione tra i capitalisti e i loro Stati per controllare dei mercati sempre più asfittici. Importanti settori della borghesia hanno spinto per delle misure protezioniste che “difendessero” i loro profitti contro i rivali stranieri. La Casa Bianca di Obama ha imposto come condizione al suo stimolo economico che tutto il ferro e l’acciaio utilizzati fossero “made in Usa”. Le borghesie europee hanno finanziato in vario modo le aziende “nazionali”, specialmente nel settore automobilistico, per renderle più “competitive”.
In Italia la burocrazia sindacale ha salutato come un esempio da seguire il “piano di salvataggio” delle grandi case automobilistiche (GM e Chrysler) da parte dell’amministrazione Obama. I dirigenti della Cgil hanno detto che l’ingresso della Fiat nel capitale della Chrysler rappresenta un passo in avanti, a dispetto del fatto che questo comportasse un attacco pesantissimo agli operai americani. Rifondazione ha salutato la fusione con toni trionfalistici:
“L'auto italiana sbarca negli Stati Uniti. La caravella che la porta stavolta si chiama Fiat e al comando del timone non c'è Cristoforo Colombo, bensì un moderno manager di nome Sergio Marchionne. E tuttavia non c'è dubbio che, al di là di allegorie forse ingenuamente nazionaliste, la notizia della fusione del Lingotto con l'americana Chrysler, resa ufficiale dal presidente degli Stati Uniti in persona, rappresenti comunque ‘un momento storico’ non solo per la casa torinese, come ha sottolineato con orgoglio lo stesso Marchionne ma anche, più in generale, per l'industria del nostro paese.” (Liberazione, 1 maggio 2009)
Ai burocrati sindacali e ai partiti riformisti, che appoggiano l’idea reazionaria secondo cui gli operai devono difendere “l’industria nazionale” a spese dei loro fratelli di classe all’estero, stanno a cuore prima di tutto i profitti dei “loro” capitalisti, nella speranza che qualche briciola cada anche nelle loro mani. Al contrario, fin dall’inizio, noi e i nostri compagni della Spartacist League/U.S. ci siamo schierati a fianco della classe operaia indipendentemente dal paese d’appartenenza, opponendoci al piano di “salvataggio” dei padroni dell’industria automobilistica. Questi “salvataggi” sono stati sicuramente un affare per i padroni: la direzione filo capitalista dell’United Auto Workers ha capitolato alle condizioni imposte dal piano di salvataggio di GM e Chrysler in base al quale da 20 a 28 stabilimenti saranno chiusi e decine di migliaia di lavoratori licenziati e i nuovi assunti oggi vengono pagati la metà. Queste misure aumentano incredibilmente il tasso di sfruttamento degli operai dell’automobile, sferrando un colpo durissimo a quello che un tempo, con 1,6 milioni di iscritti, era uno dei sindacati industriali più potenti, che oggi ne ha meno di 500 mila e che in conseguenza di questi accordi diverrà l’ombra di sé stesso.
Dopo aver tratto vantaggio dalla svendita degli operai americani, la Fiat ora cerca di ricattare tutti i suoi operai nei diversi paesi per far loro ingoiare un peggioramento delle condizioni di lavoro e dei salari (e mungere finanziamenti pubblici) col ricatto della “delocalizzazione” della produzione da un impianto all’altro. Così ha annunciato di voler spostare la produzione della Panda da Tychy in Polonia a Pomigliano, come una decisione storica di “rilocalizzazione” in Italia della produzione, a condizione che gli operai accettassero le peggiori condizioni di lavoro dei loro compagni polacchi.
Cisl, Uil e la maggioranza della Cgil, hanno sottoscritto. La Fiom ha rifiutato di votare l’accordo e in una riunione dei dirigenti sindacali del gruppo Fiat in Europa, ha evocato platonicamente il principio “che va respinto qualsiasi tentativo di contrapporre fra di loro le varie situazioni nazionali e i vari siti produttivi interessati dagli sviluppi della situazione”. Ma invece di organizzare la lotta di classe necessaria a scala internazionale per respingere i piani di austerità promessi dai padroni, si è limitata a rivendicare che “qualora il piano di integrazione fra le varie società vada avanti, per affrontare la crisi che colpisce oggi il mercato dell’auto devono essere ricercate soluzioni solidaristiche”. Per i burocrati della Fiom la “solidarietà internazionale” consiste nel chiedere agli operai d’Europa di condividere i sacrifici (i famigerati “contratti di solidarietà” con cui si costringono i lavoratori ad accettare stipendi più bassi per “salvare” i profitti dei padroni). La Fiom ha anche dichiarato di essere disposta a fare concessioni sui turni di lavoro per portare la “produttività” di Pomigliano in linea con quella degli impianti polacchi e insieme a Rifondazione ha chiesto che il governo intervenisse con finanziamenti pubblici a favore della Fiat, a condizione che questa “rimanesse in Italia”. Così i proclami di “solidarietà internazionale” si rivelano solo una foglia di fico del protezionismo nazionalista.
Quando la Fiat ha minacciato di spostare la produzione di alcuni modelli da Mirafiori alle fabbriche serbe di Kragujevac, Liberazione (23 luglio) ha strillato con toni sciovinisti: “Fiat tradisce l’Italia”. Per gli sciovinisti che dirigono Rifondazione, così come per i burocrati sindacali, per non “tradire l’Italia” evidentemente la Fiat dovrebbe chiudere le fabbriche all’estero e “rilocalizzare” la produzione in Italia. Allo stesso tempo si oppongono alle “delocalizzazioni” solo ed esclusivamente in quanto rappresentano un attacco al movimento operaio “nazionale” e alla “industria nazionale”. Noi abbiamo una prospettiva di classe, internazionalista, dal punto di vista dell’internazionalismo proletario, salutiamo la crescita delle fila del proletariato internazionale che significa anche un rafforzamento dei fratelli di classe degli operai italiani. Degli attuali dipendenti Fiat, “solo” 22 mila lavorano in Italia, il resto sono in Polonia (5.800), Brasile (8.700) e in altre fabbriche in Francia e in Turchia. Per non parlare del fatto che con la fusione con la Chrysler, la famiglia Agnelli è azionista di maggioranza delle storiche fabbriche Chrysler di Detroit, dove lavorano decine di migliaia di operai. L’esistenza di fabbriche Fiat in molti paesi, crea la possibilità e la necessità di una lotta di classe congiunta degli operai italiani, polacchi, serbi e americani.
Un esempio di questa possibilità è venuto da un gruppo di operai polacchi della fabbrica di Tychy, che in una lettera ai loro compagni di Pomigliano (pubblicizzata ampiamente dalla sinistra italiana proprio perché non implicava nessun impegno alla lotta di classe in Italia in difesa dei lavoratori polacchi) hanno scritto:
“Si chiede agli operai italiani di accettare condizioni peggiori. Ogni volta la Fiat mostra agli operai che se non accettano perderanno il lavoro. Se non lavorano come schiavi, qualcun altro lo farà al loro posto. Sappiamo che la Fiat da per scontato il duro lavoro dei nostri colleghi italiani, così come il nostro. Speravamo che i sindacati della Fiat in Italia lottassero. Non per conservare i nostri posti di lavoro a Tychy, ma per dimostrare che ci opponiamo a queste condizioni di lavoro. I nostri sindacati, i nostri operai, erano deboli. Pensavamo di non essere in condizione di lottare, di essere poveri, di dover supplicare la Fiat per ogni posto di lavoro. Abbiamo abbandonato gli operai italiani, abbiamo preso i loro posti di lavoro. Ora succede la stessa cosa a noi. E’ chiaro che questa è una situazione in cui gli operai perdono comunque. Non possiamo più continuare così, lottando gli uni contro gli altri per tenere il lavoro. Dobbiamo unirci e batterci per i nostri interessi a scala internazionale”.
La classe operaia deve difendersi dalla chiusura delle fabbriche, dai tagli dei salari o dal peggioramento delle condizioni di lavoro. Ma non può farlo, come fanno i burocrati sindacali, suggerendo ai capitalisti dove investire, se sfruttare e licenziare gli operai nel “nostro” o in un altro paese. Gli operai si interesseranno di come e dove investire soltanto dopo aver preso il potere statale, quando le fabbriche saranno le loro e i capitalisti saranno espropriati. Ogni posto di lavoro deve essere difeso, in Italia come in Polonia, in Serbia come in Usa, ovunque, e le rivendicazioni del movimento sindacale non devono riguardare chi svolge il lavoro e in quale paese, ma con quale salario e a quali condizioni lavora. Il lavoro deve essere fatto a pieno salario e alle migliori condizioni contrattuali esistenti nel settore! Per il proletariato, specialmente nei paesi imperialisti, appoggiare qualsiasi forma di nazionalismo economico significa prendere parte a una lotta fratricida, trasformarsi di fatto in uno strumento dei padroni contro altri lavoratori, compromettendo la lotta di classe e rinunciando in partenza a qualsiasi prospettiva rivoluzionaria.
Mettendo in competizione operai di paesi diversi con salari e condizioni di lavoro diverse, la borghesia vuole incrementare i propri profitti aumentando lo sfruttamento e peggiorando le condizioni di tutti. Come hanno scritto alcuni anni fa i nostri compagni tedeschi, durante gli imponenti scioperi alla Opel-Bochum:
“Ci sono molte discussioni sulla fabbrica Opel di Gliwice in Polonia. Non abbiamo incontrato espressioni aperte di sciovinismo antipolacco. Ma c’era ugualmente un’atmosfera del tipo ‘non possiamo competere con i loro salari’. E perché dovrebbero? Gli operai tedeschi devono aiutare gli operai polacchi a lottare per dei salari e delle condizioni lavorative decenti contro la sete di profitto dei capitalisti scatenata dalla controrivoluzione. Per questo serve un partito rivoluzionario basato sul programma della lotta di classe internazionalista. In definitiva solo un’economia pianificata sotto il controllo della classe operaia può eliminare le lampanti differenze sociali ed economiche tra i diversi paesi.” (Spartaco n.66, settembre 2005)
Nazionalismo e protezionismo economico sono dottrine che servono ad incanalare il malcontento per la disoccupazione verso l’ostilità nei confronti dei lavoratori stranieri e degli immigrati e suscitare illusioni nella benevolenza dei capitalisti locali, nascondendo il fatto che sono loro e il loro sistema i responsabili per disoccupazione e miseria operaia. Queste dottrine avvantaggiano i politicanti borghesi con in testa i razzisti della Lega Nord che arrivano anche a presentarsi di fronte a picchetti di sciopero e fabbriche occupate, dove invece di essere cacciati in malo modo come meriterebbero, sono stati accolti a braccia aperte dai burocrati sindacali, incluso dai sedicenti sindacati “di base” come i capi della Cub della Maflow di Trezzano (Milano). Il 14 giugno alla Indesit di Brembate, dove 430 lavoratori lottano aspramente contro la chiusura della fabbrica, il leghista Calderoli, noto razzista, è stato applaudito dai burocrati sindacali tra lo sventolio di bandiere di Fim, Fiom e Uilm. Un dirigente sindacale ha chiesto a Calderoli di impedire che la produzione fosse spostata a Caserta, dato che lui è “bergamasco come noi”. Secondo un resoconto di Operai Contro (n. 770) Calderoli ha ribattuto chiedendo prima di sapere “quanti immigrati stranieri lavorano in fabbrica, quanti ‘terroni’ e quanti del posto”. I burocrati sindacali hanno anche sottoscritto un documento di “tutti i politici bergamaschi” in cui si condanna l’azienda per aver aperto fabbriche in Polonia e nell’Italia meridionale.
Legando la classe operaia ai politicanti borghesi (e per di più alla destra razzista rappresentata dalla Lega), i burocrati sindacali condannano la classe operaia alla sconfitta e spianano la strada al terrore razzista. E’ vitale che il movimento operaio organizzato si mobiliti in difesa degli immigrati contro il terrore razzista della Lega Nord e dello Stato.
Il fatto che i burocrati sindacali e i riformisti appoggino lo sciovinismo della propria borghesia non è una svista, ma è legato alla natura di questo strato sociale. Come spiegò Lenin:
“Ben si comprende che da questo gigantesco soprapprofitto (così chiamato perché si realizza all'infuori e al di sopra del profitto che i capitalisti estorcono agli operai del ‘proprio’ paese) c'è da trarre quanto basta per corrompere i capi operai e lo strato superiore dell'aristocrazia operaia. E i capitalisti dei paesi ‘più progrediti’ operano così: corrompono questa aristocrazia operaia in mille modi, diretti e indiretti, aperti e mascherati. E questo strato di operai imborghesiti, di ‘aristocrazia operaia’, completamente piccolo-borghese per il suo modo di vita, per i salari percepiti, per la sua filosofia della vita (...) ai nostri giorni costituisce il principale puntello sociale (non militare) della borghesia.” (L’imperialismo, “Prefazione alle edizioni francese e tedesca”)
La crisi ha anche esasperato le tensioni tra i governi capitalisti dell’Unione Europea (Ue), che si azzuffano per “salvare” le rispettive economie. Contrariamente a quanto sostengono i burocrati sindacali e i partiti riformisti, non è possibile fare dell’Europa capitalista una forza “sociale” che introduca leggi a vantaggio dei lavoratori. L’abbassamento dei salari e delle condizioni di vita dei lavoratori è proprio uno degli scopi dell’esistenza dell’Ue. L’allargamento del blocco imperialista dell’Ue ai paesi dell’Est (reso possibile dalle controrivoluzioni capitaliste in Europa dell’Est e Unione Sovietica tra il 1989 e il 1992), ha fornito alle borghesie europee un vasto bacino di manodopera qualificata a prezzi stracciati. Noi comunisti ci opponiamo all’Unione Europea, un consorzio imperialista che serve ad aumentare la competitività dei suoi componenti nei confronti dei rivali americani e giapponesi, a spese della classe operaia europea e degli immigrati. Il nostro programma è per delle rivoluzioni operaie che portino alla formazione degli Stati uniti socialisti d’Europa.
Polonia: l'eredità della controrivoluzione di Solidarnosc
La stampa borghese ha descritto con dovizia di dettagli le condizioni di lavoro e i salari degli operai polacchi della Fiat. Turni continui per salari medi di circa 500 euro al mese appena sufficienti a sopravvivere. Gli operai Serbi della Fiat di Kragujevac (ex Zastava) si trovano in condizioni ancora peggiori, con salari inferiori ai 270 euro al mese e le fabbriche chiuse da mesi per la crisi.
Le condizioni di sfruttamento degli operai polacchi e serbi da parte dei capitalisti occidentali sono il prodotto della controrivoluzione capitalista che ha distrutto gli Stati operai burocraticamente deformati sorti dopo la Seconda guerra mondiale. In Polonia la controrivoluzione capitalista guidata da Solidarnosc e condotta a termine nel 1989, ha devastato le condizioni di vita della classe operaia e della popolazione polacca, spalancando il paese al più sfrenato sfruttamento imperialista. Il governo derivato da Solidarnosc che prese il potere nel 1989 smantellò l’economia collettivizzata polacca e attuò una “terapia da shock” che distrusse completamente l’assistenza sociale di cui i polacchi avevano goduto sotto lo Stato operaio (assistenza sanitaria praticamente gratuita, case sussidiate, pensioni decenti, ecc.) In sintonia con i “valori familiari” cattolici, il diritto all’aborto gratuito e assistito venne abolito. Nei vent’anni successivi, Solidarnosc e la destra si sono alternati ai socialdemocratici di Alleanza della sinistra democratica nella devastazione della classe operaia. La disoccupazione ha raggiunto il 20 percento. Nelle regioni minerarie della Polonia meridionale, migliaia di minatori espulsi dall’industria di Stato si sono ridotti a vivere scavando carbone con pala e piccone, rischiando la vita nelle biedaszyby (i pozzi dei poveri) come succedeva prima della guerra.
La necessità di una direzione di lotta di classe dei sindacati è drammaticamente urgente in Polonia, ma il panorama politico è talmente reazionario che lo scorso 8 giugno è entrata in vigore una legge, voluta dal governo di destra e votata quasi all’unanimità dal parlamento, che emenda il codice penale criminalizzando la diffusione di ogni “simbologia comunista”.
Gli attuali dirigenti sindacali polacchi sono stati in gran parte gli agenti diretti della controrivoluzione capitalista e della devastazione delle condizioni delle classe operaia. Solidarnosc dopo avere assolto il suo ruolo di forza controrivoluzionaria al soldo di Cia e Vaticano è oggi contemporaneamente un sindacato e un’organizzazione reazionaria clericale. Organizza i lavoratori sui luoghi di produzione e a volte guida delle lotte economiche. Allo stesso tempo funziona come un movimento politico, strettamente alleato alla gerarchia cattolica e ai partiti nazionalisti dichiaratamente di destra.
Nata durante l’ondata di scioperi che scossero la Polonia nel 1980, inizialmente Solidarnosc si basava su legittime rivendicazioni operaie. Per ben tre volte, nel 1956, 1970 e 1976, delle esplosioni operaie avevano portato il paese sull’orlo di una rivoluzione politica proletaria ma vennero frustrate dalla burocrazia stalinista, che dissanguò il paese per pagare i debiti contratti con i banchieri occidentali e per sussidiare i contadini proprietari. Fu un crimine storico degli stalinisti che spinse la maggioranza del proletariato polacco, storicamente filosocialista, nelle braccia della Chiesa cattolica. Nel settembre del 1981, al suo congresso di fondazione, Solidarnosc si consolidò attorno ad un programma di controrivoluzione capitalista e la nostra tendenza (all’epoca Tendenza spartachista internazionale), fece appello a “Fermare la controrivoluzione di Solidarnosc”. Al programma controrivoluzionario di Solidarnosc contrapponevamo l’appello a sindacati indipendenti dal controllo della burocrazia ma basati su di un programma di difesa della proprietà collettivizzata. Le nostre rivendicazioni (come la rigida separazione tra Stato e Chiesa, il ripudio del debito della Polonia verso le banche occidentali, la collettivizzazione dell’agricoltura, la difesa militare dell’Unione Sovietica contro l’imperialismo e la rivoluzione politica proletaria per cacciare la burocrazia stalinista), erano il programma fondamentale per cui doveva battersi un partito d’avanguardia trotskista internazionalista, per difendere lo Stato operaio deformato polacco. Nel dicembre del 1981 abbiamo appoggiato la soppressione del tentativo di Solidarnosc di prendere il potere, da parte del generale stalinista Jaruzelski, applicando la nostra posizione di difesa militare incondizionata degli Stati operai degenerato e deformati contro la controrivoluzione capitalista. Nello stesso momento, abbiamo avvertito che gli stalinisti erano assolutamente capaci di svendere la Polonia al capitalismo, cosa che in effetti fecero nel 1989-90. Fu l’impatto del nostro programma trotskista di opposizione alla controrivoluzione di Solidarnosc e la nostra lotta contro la riunificazione capitalista della Germania nel 1989-90 che portò alla formazione del Gruppo spartachista di Polonia sezione della Lega comunista internazionale.
Al contrario quasi tutti i sedicenti gruppi “comunisti” o “trotskisti” italiani hanno appoggiato la controrivoluzione: dal Pcl, i cui attuali capi nel 1982 manifestavano assieme a Comunione e Liberazione proclamando “solidarietà a Solidarnosc”, al Pdac e alla sua Lega internazionale dei lavoratori (Lit) che negli anni Ottanta chiedeva “Tutto il potere a Solidarnosc” e che nel 1989 proclamò che l’ascesa al potere di Walesa era una “gigantesca vittoria”.
In Serbia le condizioni della classe operaia sono ancora peggiori che in Polonia. Anche in Serbia, se oggi la Fiat e le altre aziende capitaliste possono sfruttare senza ritegno i lavoratori è grazie alla restaurazione del capitalismo avvenuta all’inizio degli anni Novanta. In Jugoslavia la controrivoluzione istigata dagli imperialisti si è tradotta in un bagno di sangue fratricida, in cui le differenti forze nazionaliste borghesi hanno cercato di ritagliarsi degli Stati nazionali con la pulizia etnica delle altre nazionalità ed etnie che formavano questo mosaico di popoli. Noi trotskisti non abbiamo preso nessuna parte in queste guerre nazionaliste che contrapponevano gli eredi degli ustascia croati a quelli dei cetnici serbi e degli islamisti bosniaci, e allo stesso tempo ci siamo opposti a qualunque intervento delle Nazioni unite denunciando gli interessi nell’area, degli imperialismi tedesco, americano e anche italiano. Quando poi gli imperialisti sono intervenuti militarmente prima contro i serbi di Bosnia e poi contro la Serbia stessa, abbiamo preso la difesa militare di questa piccola nazione contro la “nostra” borghesia e i suoi alleati della Nato! I bombardamenti della Serbia hanno rigettato indietro di decenni la sua base economica, distruggendo anche le vecchie officine della Zastava. La Lega trotskista internazionale raccolse ed estese a scala internazionale l’appello lanciato dai Cobas dell’Alfa Romeo per una campagna di raccolta di fondi e aiuti per gli operai serbi bombardati dagli imperialisti. Quella campagna fu un piccolo esempio concreto di solidarietà proletaria internazionale, un esempio di quell’unità di classe degli operai serbi, italiani, polacchi e americani che servirebbe ora contro gli attacchi dei capitalisti. I capitalisti italiani hanno tratto enorme vantaggio dalla restaurazione del capitalismo nell’Europa dell’Est e nei Balcani. Interi paesi (dall’Albania alla Romania) sono stati ridotti a delle misere semicolonie, dove operai qualificati, senza diritti e con salari da fame, lavorano per le piccole e grandi imprese italiane. I capitalisti si sono anche avvantaggiati dell’importazione di una manodopera qualificata e istruita per fare i lavori peggio pagati in Italia: migliaia di operai romeni lavorano nei cantieri e nelle fabbriche dell’Italia del Nord e migliaia di donne polacche e ucraine lavorano come infermiere o come serve domestiche nelle case e negli ospedali italiani. Come si è visto con le campagne razziste e i “decreti sicurezza” introdotti prima da Rifondazione/Unione e poi dal governo Berlusconi, la borghesia non intende trattare gli immigrati dell’Europa dell’Est come “cittadini”, ma lancia periodicamente delle campagne razziste per emarginarli e introduce misure restrittive del loro diritto di cittadinanza e di lavoro. No alle restrizioni imposte ai lavoratori dell’Europa dell’Est. Fuori tutte le truppe imperialiste dai Balcani!
Dopo aver riconquistato allo sfruttamento l’ex Unione Sovietica e i paesi dell’Europa orientale, ora le grandi potenze imperialiste (Usa, Giappone, Germania, ecc) puntano a restaurare il capitalismo in Cina, il più vasto degli stati operai deformati che ancora esistono. Nonostante la penetrazione capitalista consentita negli ultimi decenni dalle “riforme di mercato”, il cuore dell’economia industriale cinese (acciaio e metalli non ferrosi, macchine elettriche pesanti, telecomunicazioni, estrazione e raffinazione di idrocarburi, ecc.) continua a basarsi sulle imprese di Stato e quasi tutti gli investimenti domestici sono controllati dalle banche statali.
La Rivoluzione cinese del 1949 è stata una colossale vittoria per la classe operaia e le masse contadine povere, in Cina e a scala internazionale, anche se sin dall’inizio è stata deformata dal dominio dalla casta burocratica nazionalista e conservatrice raccolta nel Partito comunista cinese. La difesa e l’allargamento delle conquiste della rivoluzione del 1949 contro la restaurazione del capitalismo, restano un compito fondamentale per gli operai cinesi e di tutto il mondo. Di recente la Cina è stata attraversata da potenti scioperi, partiti dalle officine della Honda ed estesi a molte altre fabbriche di proprietà di capitalisti taiwanesi e giapponesi, che hanno strappato aumenti fino al 30 percento (Vedi articolo a pag. 3). Noi trotskisti ci battiamo per un programma di difesa militare incondizionata della Cina contro le minacce di restaurazione capitalista interna o esterna e allo stesso tempo facciamo appello agli operai cinesi a battersi per una rivoluzione politica proletaria che cacci i burocrati stalinisti, nazionalisti e parassitari e istituisca un governo basato sulla democrazia operaia e sull’internazionalismo rivoluzionario.
Pcl, Pdac, Lotta comunista: difensori del capitalismo, per Costituzione.
Uno degli elementi decisivi che garantiscono la sopravvivenza del capitalismo è il fatto che la classe operaia pensa che gli aspetti più distruttivi del capitalismo, come la disoccupazione o le crisi, possano essere eliminati con delle riforme politiche. A martellare l’idea che sia possibile riformare il sistema capitalista a vantaggio dei lavoratori non è tanto la borghesia, quanto i suoi agenti riformisti in seno al movimento operaio, in particolare quelli che si professano “comunisti” e persino “trotskisti”. Alcune organizzazioni chiedono la nazionalizzazione della Fiat per rispondere alle minacce di chiusura degli stabilimenti. Il Pcl di Marco Ferrando chiede “una campagna generale per la nazionalizzazione della FIAT”: “Se la Fiat espropria il contratto e persino la Costituzione, una battaglia per l’esproprio della Fiat diventa una necessità elementare, sociale e ‘democratica’ La Fiat è già stata ‘comprata’ dalla società italiana attraverso le enormi regalie pubbliche di tutti i governi. La nazionalizzazione è solo la restituzione del maltolto, e un fatto di risparmio” (pclavoratori.it, 24 luglio 2010). Il principale esponente di Falcemartello alla Fiat di Pomigliano, Domenico Loffredo, ha dichiarato: “Non vogliamo assolutamente che si perdano posti di lavoro nel momento in cui la Fiat dovesse mettere definitivamente la croce sullo stabilimento di Pomigliano, siamo perché lo stato intervenga come avviene nel resto del mondo in altri settori ma anche nel settore metalmeccanico chiediamo la nazionalizzazione della Fiat. Pensiamo anche si possa pensare alla riduzione dell’orario di lavoro ed a una integrazione al reddito da parte del governo. E’ stata poi fatta la proposta dell’auto ecologica (
) l’unica possibilità di dare un futuro al mercato dell’auto.” (marxismo.net, 6 marzo 2009). Anche il segretario del Prc Ferrero ha ventilato : “Scajola invece che continuare ad abbaiare alla luna e fingere d’indignarsi, intervenga in modo deciso obbligando il gruppo a non chiudere nessuno stabilimento”. Altrimenti, “il governo prenda il coraggio a due mani e dia luogo alla nazionalizzazione del gruppo Fiat”. (Liberazione, 28 gennaio).
La nazionalizzazione di industrie moribonde è spesso rivendicata dalle organizzazioni socialdemocratiche ed è stata da sempre utilizzata dai governi capitalisti per placare, facendo concessioni minime, il malcontento della classe operaia e per sostenere capitalisti sull’orlo del fallimento. Come è dimostrato chiaramente dalle de-facto nazionalizzazioni di GM e Chrysler fatte dal governo di Obama, queste nazionalizzazioni avvengono sempre a spese degli operai. Fiat non è sull’orlo della bancarotta, ma è schiacciata da debiti ed è sempre più marginale sul mercato mondiale. Per sperare di sopravvivere nell’economia globalizzata deve aumentare lo sfruttamento dei lavoratori che producono le sue auto. Che sia di proprietà dello Stato capitalista o in mano a privati i termini della questione non cambiano. La risposta alla domanda “a chi giova” la nazionalizzazione, è legata indissolubilmente a qual è la classe dominante: è necessaria la rivoluzione proletaria e la creazione di uno Stato operaio per avere un’espropriazione della Fiat favorevole ai lavoratori.
Tutti i gruppi pseudo marxisti da Falcemartello al Pdac al Pcl hanno sottoscritto il documento di minoranza dell’ultimo congresso della Cgil. Uno dei capi di Lotta comunista, Franco Grondona, che da anni è tranquillamente installato a capo dell’apparato burocratico della Fiom di Genova, ha firmato personalmente il documento “La Cgil che vogliamo”. Questo documento, nonostante tutte le chiacchiere domenicali di Lotta comunista sul “socialismo”, rappresenta una dichiarazione di fede e un concreto appoggio all’ordinamento capitalista. Inizia con la menzogna borghese secondo cui la crisi attuale non è un prodotto del sistema capitalista (le stesse parole “capitalismo” e “socialismo” sono rigorosamente assenti da questa piattaforma riformista), ma delle scelte politiche dei governi di destra: “l'epilogo di un lungo periodo, dominato dal pensiero unico neoliberista, di sviluppo fondato sulla crescita delle disuguaglianze sociali, sulla compressione dei diritti individuali e collettivi e su un modello di consumi affidato all'incremento dell'indebitamento delle famiglie piuttosto che alla crescita delle retribuzioni”. Al “neoliberismo”, i riformisti contrappongono “un’idea di società alternativa”, “i cui lineamenti fondamentali sono tracciati nella costituzione”.
I lineamenti fondamentali della società tracciata dalla Costituzione sono la proprietà privata dei mezzi di produzione nelle mani della classe capitalista, lo sfruttamento salariato della classe operaia e il potere statale della borghesia esercitato attraverso i corpi di uomini armati dell’esercito, della polizia e delle loro appendici giudiziarie. Per non parlare del fatto che la tanto celebrata Costituzione sancisce la compenetrazione della Chiesa cattolica e dello Stato e tutti gli odiosi privilegi garantiti alla piovra vaticana dai Patti Lateranensi di Mussolini. La Costituzione è stata la sanzione del tradimento con cui il Pci disarmò la classe operaia italiana alla fine della Seconda guerra mondiale e rimise in piedi l’apparato di oppressione capitalista, spianando la strada a quarant’anni di dominio capitalista e di potere democristiano.
La retorica della “difesa della Costituzione” non è che una concretizzazione della politica di collaborazione di classe con la borghesia che anima i riformisti italiani e che gli consente di mostrare in modo inequivocabile alla borghesia la loro intenzione di voler difendere il sistema di produzione capitalista. E’ la stessa politica che il segretario del Prc Ferrero, sentendo odore di elezioni, ha ribadito nella sua ennesima lettera ai “segretari dell’opposizione” in cui implora i “cari amici e compagni” di “formare un’alleanza democratica basata su pochi punti chiari: la difesa della costituzione e il ristabilimento pieno delle regole democratiche, la modifica della legge elettorale in senso proporzionale, una politica sociale redistributiva (rifondazione.it, 13 agosto). Questa politica di collaborazione di classe è già costata quindici anni di lacrime e sangue agli operai, agli immigrati e ai giovani e una profonda demoralizzazione politica dei lavoratori che ha alimentato la crescita di ogni tipo di forza reazionaria. Tutta la merda contro cui la classe operaia si trova oggi a lottare non è stata introdotta solo dai governi di Berlusconi, ma specialmente da governi di “centrosinistra” con la partecipazione (diretta o esterna) di Rifondazione comunista. I tagli alle pensioni, l'introduzione del lavoro interinale su scala massiccia, le leggi razziste fatte di deportazioni e centri di detenzione, le leggi antisciopero, portano tutte il timbro o la firma di Rifondazione comunista. E portano anche l’impronta di quelli che oggi si presentano a “sinistra” del Prc, ma che nel corso di quindici anni hanno partecipato ai tradimenti di quel partito. Da Sinistra critica, i cui capi erano nella direzione del Prc, che ha sostenuto per un anno e mezzo il governo Prodi, votandogli ripetutamente la fiducia, anche in occasione del finanziamento dell'occupazione imperialista dell'Afghanistan; al Partito comunista dei lavoratori o al Pdac, che per quindici anni, nonostante i vari “distinguo” ai congressi del Prc hanno fatto appello a votare Rifondazione e le coalizioni capitaliste di cui faceva parte. Noi della Lega trotskista d’Italia ci siamo sempre opposti per principio a qualsiasi appoggio, politico o elettorale, alle coalizioni frontepopuliste, che legano la classe operaia alla borghesia, e ai partiti “operai” che vi partecipano.
La solidarietà di classe internazionale è la chiave per difendere le lotte delle masse lavoratrici e dei popoli oppressi del mondo. Questa prospettiva richiede la rottura con la politica di collaborazione di classe propugnata dai burocrati sindacali, dai riformisti e dalle loro code pseudo marxiste. Richiede una nuova direzione dei sindacati, che abbia le sue radici in un programma di lotta proletaria. Richiede soprattutto la costruzione di un partito operaio rivoluzionario che riconquisti al programma del marxismo l’avanguardia della classe e le nuove generazioni che inevitabilmente si troveranno a lottare contro i drammi creati della decadenza del capitalismo.
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