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Spartaco n. 75

Gennaio 2012

I falsi trotskisti nel campo della controrivoluzione

L’isteria sul ruolo della Cina in Africa

Nell’agosto 2009, il Segretario di Stato degli Stati Uniti, Hillary Clinton, ha visitato l’Angola per testimoniare ad uno degli accordi più importanti raggiunti tra il governo del Movimento popolare per la liberazione dell’Angola (Mpla) e il gigante americano del petrolio Chevron. La Clinton ha colto quest’occasione per promettere ulteriori investimenti statunitensi, che si sono aggiunti a promesse precedenti di Washington di contribuire alla costruzione di due impianti idroelettrici. Per l’Mpla nazionalista borghese questi accordi hanno segnato una specie di svolta da parte dell’imperialismo statunitense. Per quasi trent’anni, dopo aver conquistato l’indipendenza dal Portogallo nel 1975, l’Angola è stata scossa da una devastante guerra civile. Durante gran parte di questo periodo, gli Stati Uniti hanno dato sostegno militare e finanziario alle forze della guerriglia, alleate con il Sudafrica dell’apartheid, che combattevano una guerra reazionaria per rovesciare l’Mpla protetto dall’Unione Sovietica e da Cuba. Inoltre, i capitalisti statunitensi avevano mostrato poco interesse negli investimenti in Angola anche dopo la fine ufficiale della guerra civile, nel 2002.

C’era un chiaro obiettivo dietro il volto amichevole presentato dalla Clinton al governo del Mpla. L’anno prima della visita, l’Angola era diventata il maggior partner commerciale della Cina in Africa, il più potente tra i paesi in cui il dominio capitalista è stato rovesciato. Fornendo quasi il 15 percento del fabbisogno di petrolio cinese, l’Angola ha sorpassato l’Arabia Saudita nel ruolo di maggiore esportatore di greggio verso la Cina. In cambio Pechino ha assicurato prestiti a basso interesse che sono stati utilizzati per costruire ospedali, scuole, sistemi d’irrigazione e strade. Accordi simili, che garantiscono greggio e minerali metalliferi alle fiorenti industrie in espansione in Cina, sono stati fatti dal Sudan all’Algeria, dallo Zambia alla Repubblica democratica del Congo.

Per gli Stati Uniti e per le altre potenze imperialiste, che hanno subito una storica sconfitta con la Rivoluzione cinese del 1949, questi non sono sviluppi benvenuti. La Rivoluzione del 1949 portata avanti da un esercito guerrigliero-contadino diretto dal Partito comunista cinese (Pcc) di Mao Zedong, ha stabilito al potere uno Stato operaio, sebbene burocraticamente deformato sin dal principio. La creazione negli anni seguenti di un’economia pianificata collettivizzata e centralizzata ha posto le basi di un enorme progresso sociale per gli operai, i contadini, le donne e le minoranze nazionali. Dal 1949 in poi, gli imperialisti hanno aspirato al rovesciamento controrivoluzionario del Partito comunista cinese e allo sfruttamento capitalista senza ostacoli. A questo scopo, hanno perseguito misure fatte di pressioni e minacce militari, dato appoggio a movimenti interni anticomunisti, a “dissidenti” e, negli ultimi trent’anni e più, sono penetrati nell’economia continentale cinese grazie alle “riforme di mercato” del regime del Pcc.

Quando il commercio cinese e gli accordi di aiuto ai paesi africani hanno iniziato a crescere, cinque anni fa, i portavoce imperialisti hanno lanciato l’allarme. Paul Wolfowitz, presidente della Banca mondiale, si è scatenato contro i prestiti a condizioni molto favorevoli offerti dalla banca statale cinese, sostenendo che non rispettavano gli “standard sociali e ambientali”. Tutto ciò da un uomo che pochi anni prima era stato uno dei principali architetti delle guerre dell’amministrazione Bush in Afghanistan e in Iraq! Rievocando la Guerra fredda antisovietica, il quotidiano britannico Daily Mail è intervenuto lanciando l’allarme con il titolo: “Come la Cina si sta impadronendo dell’Africa e perché l’Occidente dovrebbe essere MOLTO preoccupato” (18 luglio 2008). L’effetto è stato quello di scatenare un dibattito nel mondo accademico e tra i rappresentanti del governo in Cina a proposito del suo ruolo in Africa, sia pur all’interno della politica generale stabilita dalla burocrazia stalinista di Pechino. In un articolo intitolato “La pratica del concetto diplomatico cinese del ‘mondo armonioso’: un’analisi delle relazioni sino africane degli ultimi anni”, Ge Zhiguo condannava giustamente “le politiche di vecchia data dell’Occidente nei confronti dell’Africa”, che non solo “non hanno portato prosperità e stabilità all’Africa” ma hanno anche “causato a molti paesi africani una caduta nel caos e nella violenza etnica di lungo periodo” (Gaoxiao Sheke Dongtai [Prospettive delle scienze sociali nell’educazione universitaria], terza edizione del 2007).

Dai massacri di Re Leopoldo nel Congo belga, ai campi di concentramento britannici in Kenia, all’appoggio degli Stati Uniti al Sudafrica dell’apartheid, l’eredità lasciata dagli imperialisti occidentali in Africa è fatta di sterminio di massa, lavoro in schiavitù e repressione brutale dei movimenti d’indipendenza e delle lotte operaie. Senza dubbio il ruolo di precursore di tale barbarie lo svolse la riduzione in schiavitù degli africani durante l’iniziale stadio mercantile del capitalismo. Il giogo imperialista, lontano dal modernizzare queste società, ha rafforzato la loro arretratezza e impoverimento. Nel notare che gli investimenti della Cina in Africa sono motivati da propositi molto differenti, Ge Zhiguo ha fatto appello affinché Pechino riformi alcune delle proprie politiche per contrastare il risentimento che esiste tra gli africani causato dal trattamento degli operai nelle fabbriche cinesi e riguardo la concorrenza che le imprese commerciali cinesi fanno nei confronti degli imprenditori locali. In quanto trotskista, la Lega comunista internazionale sostiene la difesa militare incondizionata della Cina contro l’imperialismo e la controrivoluzione interna. Noi difendiamo il diritto della Cina a condurre il proprio commercio al fine di procurarsi quello di cui necessita per svilupparsi ulteriormente. Riconosciamo, tuttavia, che gli investimenti e i programmi di aiuto della Cina sono determinati non dall’internazionalismo proletario, ma dagli interessi ristretti e nazionalisti della burocrazia del Pcc, radicati nel dogma stalinista di “costruire il socialismo in un paese solo” e nel suo corollario, la “coesistenza pacifica” con l’imperialismo (ora chiamata politica del “mondo armonioso”). Il regime del Pcc, contrario alla prospettiva della rivoluzione proletaria internazionale, si è adattato all’imperialismo, sino ad arrivare, come vedremo, a unirsi agli Stati Uniti e al Sudafrica nel sostenere le forze antisovietiche in Angola, appoggiando allo stesso tempo militarmente e politicamente governanti borghesi “amici” in Africa e altrove che reprimono brutalmente operai e popolazione povera urbana e rurale.

Il ruolo della Cina in Africa è contraddittorio e riflette le contraddizioni che assillano la Cina stessa quale Stato operaio governato burocraticamente in un mondo dominato dagli imperialisti. Per difendere ed estendere le conquiste della Rivoluzione cinese è necessaria una rivoluzione politica proletaria che spodesti la burocrazia del Pcc sostituendola con un regime di democrazia operaia impegnato a lottare per il socialismo mondiale.

La Cina non è capitalista

A formare il fianco sinistro della campagna antiCina vi sono pseudo socialisti come il Comitato per un’internazionale operaia (Cwi), diretto da Peter Taaffe, e il Segretariato unificato del fu Ernest Mandel. In un articolo del 30 marzo 2008 della sezione tedesca del Cwi, intitolato “La Cina in Africa”, la Sav (Alternativa socialista), ha denunciato la Cina come “uno dei tanti attori” che prende parte al “gioco” dello sfruttamento dei paesi africani. La Sav ha dichiarato che “la Cina, come altri paesi imperialisti, cerca solo di sfruttare le loro risorse e i loro mercati il più possibile”. Nella rivista online del Segretariato unificato International Viewpoint (gennaio 2007), Jean Nanga, presentato come un “marxista rivoluzionario congolese”, condannava in modo simile le presunte “ambizioni globali” della Cina in quanto “motivate dall’interesse capitalista.”

Che il Cwi e il Su si siano associati senza vergogna alla campagna anticomunista contro la Cina, non è una sorpresa. Prostituendosi alla “democrazia” borghese, il Segretariato unificato e i predecessori della Cwi si sono schierati contro l’ex Stato sovietico e gli Stati operai deformati dell’Europa dell’Est, sostenendo qualunque movimento controrivoluzionario sostenuto dagli imperialisti, come ad esempio il movimento polacco Solidarnosc e la feccia reazionaria di Boris Eltsin sulle barricate di Mosca nell’agosto del 1991.

Il Segretariato unificato, rivolgendo la propria stalinofobia contro la Cina, si è fatto campione di “dissidenti” proimperialisti come il Nobel per la “pace” Liu Xiaobo, un sostenitore delle guerre Usa in Vietnam, Iraq e Afghanistan (vedi l’articolo di Workers Vanguard n. 981, del 27 maggio 2011: “Hong Kong: Fake Trotskyists Hail Imperialist Running Dog Liu Xiaobo” [Falsi trotskisti salutano il lacchè degli imperialisti Liu Xiaobo]). Il Cwi, come hanno notato i nostri compagni della Spartacist League/Britain, ha acclamato le sommosse anticomuniste in Tibet ed ha apertamente difeso la “democratica”, capitalista Taiwan che è da lungo tempo sostenuta dagli imperialismi statunitense e giapponese come un pugnale puntato contro la Repubblica popolare cinese (vedi l’articolo di Workers Hammer n. 202, della primavera del 2008, “China Is Not Capitalist”). A Peter Taaffe piace pontificare sull’argomento secondo cui la “transizione” verso un capitalismo conclamato “non è stata ancora pienamente completata” (“Halfway House”, Socialism Today, luglioagosto 2011). Si tratta solamente di un po’ di copertura cosmetica per nascondere il concreto e consistente appoggio del Cwi alle forze della controrivoluzione capitalista.

Il furore a proposito del ruolo della Cina in Africa è iniziato a crescere seriamente nel 2006 come risposta al conflitto del Darfur, nel Sudan occidentale, che è sfociato in un massacro di massa e l’allontanamento di circa due milioni di persone lontano dalle loro case. L’apparente causa di quel conflitto era lo sguinzagliamento delle milizie janjaweed, basate su nomadi musulmani, da parte del governo di Khartoum contro le forze della guerriglia basate sulla popolazione rurale anch’essa musulmana. Negli Stati Uniti, una campagna diretta da cristiani di destra, sionisti e un certo numero di personalità liberali che esigevano l’intervento imperialista per “salvare il Darfur” ha demonizzato la Cina che ha investito fortemente nella produzione di petrolio sudanese e ha sviluppato stretti contatti con il regime di al-Bashir, rifornendolo di armamenti militari. Unendosi a questa cabala, l’articolo della Sav del 2008, si lamentava che “il regime cinese, che importa l’8 percento del suo greggio dal Sudan, ha mostrato durante il recente conflitto che ci tiene molto ai suoi profitti e molto meno alla sorte della popolazione locale”.

E’ da notare che uno dei fattori che hanno spinto la Cina a volgersi in modo crescente verso l’Africa per il petrolio è stata una rabbiosa campagna anticomunista, diretta in grande misura dalla burocrazia sindacale americana che è riuscita ad annullare l’acquisizione pianificata della statunitense Unocal da parte della China National Offshore Oil Company. In precedenza, quello stesso anno, l’affiliata statunitense del Cwi, che si chiama anch’essa Socialist Alternative, aderì alle iniziative anticinesi firmando insieme ad altri un volantino che esigeva che l’Università di Harvard ritirasse i propri investimenti dalla PetroChina, un’altra impresa statale cinese, e dalla Unocal.

Le invettive dei liberali e dei cosiddetti socialisti possono forse funzionare bene a Londra, Parigi e altri centri imperialisti, dove il grosso della sinistra incoraggia la menzogna che la Cina è capitalista o irreversibilmente su quella strada. Questo messaggio, però, non è accolto così caldamente in Africa, dove l’aiuto cinese nel costruire ospedali, scuole e altre infrastrutture contrasta acutamente con l’eredità lasciata dagli imperialisti: estrema povertà, arretratezza sociale, guerre tribali ed etniche. La spartizione dell’Africa da parte dei poteri europei alla Conferenza di Berlino del 1884-85 fu un segnale dell’emergere dell’imperialismo moderno. Come spiegava V.I. Lenin in L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916) i paesi industrialmente avanzati erano sempre più obbligati a esportare capitale verso i paesi più arretrati, alla ricerca di materie prime e manodopera a basso costo. La competizione interimperialista che ne risultò, portò a due guerre mondiali e a innumerevoli avventure coloniali, al costo di morti e disastri indicibili.

Lo scopo degli investimenti cinesi in Africa è fondamentalmente differente e ciò può essere visto nel valore delle merci prodotte. Tutte le merci prodotte, da quelle provenienti dall’estrazione mineraria ai prodotti di fabbrica, incarnano valore d’uso (qualcosa che si vuole consumare) e valore di scambio (che si riflette nei prezzi di mercato). Nel capitalismo, i proprietari degli impianti industriali e degli altri mezzi di produzione accumulano profitti assumendo forza lavoro che produce merci allo scopo di aumentare il valore di scambio. Gli investimenti della Cina all’estero, che sono finanziati da varie banche statali cinesi, non sono motivate dalla ricerca di profitti ma dalla necessità di procurare materie prime per le industrie collettivizzate in Cina, cioè per estrarre valore d’uso.

Il funzionario del Dipartimento di Stato Usa, Princeton Lyman, che certamente non è un marxista, lo ha ammesso apertamente quando in una presentazione del 2005 all’incontro congressuale della Commissione Usa-Cina ha dichiarato:

“La Cina, per portare avanti i suoi interessi, utilizza strumenti diversi in vari modi che le nazioni occidentali possono soltanto invidiare. La maggior parte degli investimenti cinesi sono realizzati attraverso aziende di proprietà dello Stato, i cui singoli investimenti non devono creare profitti se sono funzionali agli obiettivi cinesi nel loro insieme. Così il rappresentante dell’azienda di costruzioni statale cinese in Etiopia poteva rivelare che aveva ricevuto istruzioni da Pechino di tenere le offerte basse per varie gare di appalto, senza curarsi del profitto. L’obiettivo a lungo termine della Cina in Etiopia consiste nell’avere l’accesso a futuri investimenti riguardanti le risorse naturali, non nel ricavare profitti da costruzioni commerciali.”

Il solo fatto che la Cina partecipi al commercio mondiale non significa che sia capitalista o imperialista. E’ perché gli investimenti cinesi non sono condotti per trarne profitto che i loro effetti sono radicalmente differenti da quelli prodotti dallo sfruttamento imperialista dei paesi del terzo mondo. Martyn Davies, direttore del China Africa Network presso l’Università sudafricana di Pretoria, loda i cinesi considerandoli “i più grandi costruttori d’infrastrutture” in Africa (“The Next Empire?”, Atlantic, maggio 2010), una valutazione cui fa eco la studiosa americana Deborah Brautigam con il suo libro del 2009 sul ruolo della Cina in Africa, The Dragon’s Gift (Oxford University Press), che esprime giudizi molto favorevoli sul ruolo della Cina in Africa.

Le pressioni del mercato mondiale

La necessità della Cina di importare materie prime si fece sentire in modo acuto circa un decennio fa, quando a causa del crescente sviluppo economico, non poté più provvedere alla quantità necessaria di petrolio e minerali in grado di soddisfare le necessità della produzione industriale. In virtù della sua politica del “going global” [cioè internazionalizzazione ed evoluzione del proprio modello di commercio], la Cina nel 2009 importava il 52 percento del suo fabbisogno di petrolio e il 69 percento del suo fabbisogno di minerale di ferro.

La situazione della Cina contrasta con quella dello Stato operaio sovietico, che derivò dalla Rivoluzione d’Ottobre del 1917 diretta dal Partito bolscevico. Dopo il fallimento della rivoluzione proletaria nei paesi europei più avanzati, in particolar modo la Germania, una casta burocratica conservatrice diretta da J.V. Stalin usurpò il potere politico a partire dal 1923-24. Pur profondamente segnata dall’arretratezza ereditata dallo zarismo, dai devastanti effetti della guerra imperialista e della guerra civile, l’Unione Sovietica possedeva minerali di ferro, petrolio, legname e altre materie prime in abbondanza. Stalin e soci usarono questo fatto come argomento a sostegno della concezione utopica e reazionaria che il socialismo si sarebbe potuto raggiungere nella sola Russia sovietica. Questo spazzò via la fondamentale comprensione marxista per la quale realizzare il socialismo (una società basata sull’abbondanza materiale) richiede il dominio operaio su scala internazionale, in modo particolare nei paesi industrialmente sviluppati.

L’Unione Sovietica, sulle fondamenta della propria economia pianificata, conobbe una crescita eccezionale negli anni trenta mentre il resto del mondo era impantanato nella Grande depressione. Ma soltanto attraverso i suoi sforzi e le sue risorse, l’Urss non poteva raggiungere, ancor meno oltrepassare, il livello tecnologico e la produttività lavorativa dei paesi capitalisti avanzati. Decenni di pressioni imperialiste, economiche e militari, combinate con il malgoverno burocratico e la svendita stalinista delle opportunità rivoluzionarie a livello internazionale, indebolirono fatalmente lo Stato operaio sovietico che fu distrutto dalla controrivoluzione capitalista nel 1991-92.

A seguito di questa catastrofe, la direzione del Pcc condusse uno studio interno volto a trovare il modo per evitare un destino analogo, pur restando ancorata al suo programma stalinista nazionalista del “socialismo con caratteristiche cinesi”. Una delle conclusioni del regime fu che l’Unione Sovietica aveva speso troppe risorse nel provare a competere con gli imperialisti a livello militare e in altri modi. Fu deciso che la Cina avrebbe invece esteso e approfondito i legami con il mondo del mercato capitalista. Pechino è ora un partner talmente “affidabile” nel mondo commerciale che l’economista capo della Banca mondiale, una delle principali istituzioni che fanno rispettare le imposizioni degli imperialisti, è Justin Yifu Lin, uno degli economisti più importanti della Cina!

Con la politica del “going global”, Pechino ha sostenuto sempre più gli interventi militari delle Nazioni unite nel terzo mondo, un covo di ladri imperialisti e delle loro vittime. Ciò rappresenta una svolta rispetto alla politica adottata dal regime del Pcc quando la Cina fu ammessa alle Nazioni unite, quarant’anni fa. Come osservato da Stefan Stähle nell’articolo “China’s Shifting Attitude Towards United Nations Peacekeeping Operations” pubblicato sulla rivista accademica China Quarterly del settembre del 2008:

“La Cina inizialmente, rigettava completamente l’idea di peacekeeping delle Nazioni unite. Pechino vedeva tutti gli interventi come manipolati dalle superpotenze, anche perché la Cina era stata vittima della prima tra queste azioni d’imposizione che fu diretta dagli Stati Uniti e autorizzata dalle Nazioni unite nel 1951 [sic, in realtà 1950] durante la Guerra di Corea (…) Ma, dal 1981, quando la Cina iniziò ad aprirsi al mondo, i diplomatici cinesi hanno votato a favore di tutte quelle missioni che portavano avanti compiti di peacekeeping tradizionali o che amministravano la transizione.”

In parole povere, “compiti di peacekeeping” significa sanguinose repressioni e imposizione del diktat imperialista. La Cina ha prestato in modo criminale le sue forze militari e di polizia a tali azioni di “peacekeeping”, da Haiti al Sudan. Come osservato da Chris Alden in China in Africa (Zed Books, 2007): “La maggior parte dei ‘peacekeepers’ della Cina, in effetti, hanno la loro base in Africa, questo fa della Cina il maggior contribuente, tra tutti gli Stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, alle operazioni di ‘peacekeeping’”. In quanto internazionalisti proletari, esigiamo che la Cina ponga fine alla sua partecipazione alle missioni militari delle Nazioni unite.

Dato che l’economia cinese continua a crescere mentre i paesi imperialisti sono impantanati in una depressione che non sembra avere fine (l’ennesima dimostrazione della natura della crisi del sistema di produzione per il profitto) potrebbe sembrare che Pechino abbia trovato effettivamente un modo per aggirare quelle pressioni che in ultima istanza hanno portato al collasso dell’Unione Sovietica. Questa idea, però, si basa su di una fiducia malriposta nella stabilità dell’ordine mondiale capitalista e nella benevolenza dei partner commerciali imperialisti della Cina che dominano il mercato mondiale.

Nella stessa Cina, la crescita economica sbalorditiva del paese serve ad esacerbare le tensioni di classe e quelle sociali. In particolare a causa delle “riforme di mercato”, si è creata un’enorme divisione tra funzionari governativi corrotti, imprenditori capitalisti e piccolo-borghesi privilegiati da una parte e dall’altra centinaia di milioni di proletari (sia delle imprese statali che di quelle private) e contadini poveri. Un’ondata di scioperi nelle fabbriche di auto e in altre imprese private nel 2010, non è stato che un episodio di quelli che il regime del Pcc chiama “incidenti di massa” (interruzioni del lavoro, assemblee, proteste contro la corruzione, ecc). Nel 2010 ci sono stati 180 mila incidenti (il doppio che nel 2006).

Prima o poi, il regime stalinista porterà la Cina sull’orlo del baratro, ponendo la minaccia della controrivoluzione capitalista. Allo stesso tempo, l’antagonismo tra la burocrazia e le masse sfruttate cinesi sta preparando il terreno per una rivoluzione politica proletaria per spazzar via il regime stalinista parassitario. Il proletariato cinese ha bisogno della guida di un partito leninista trotskista che combatta gli apostoli della controrivoluzione “democratica”, non ultimi quelli che sfoggiano questo programma vestendolo da “socialista” o addirittura da “trotskista”, di un partito che porti la classe operaia alla rottura con il nazionalismo stalinista. Guidati da una direzione di questo tipo, una Cina di consigli operai e contadini promuoverebbe la rivoluzione proletaria a livello internazionale. Sotto il dominio operaio, le capacità industriali e tecnologiche in Giappone, negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale sarebbero utilizzate per lo sviluppo generale della Cina quale parte di un ordine socialista mondiale.

“Non interferenza”: sostegno al dominio borghese

Nel rispondere all’accusa di “neocolonialismo” cinese in Africa, molti accademici e portavoce del governo in Cina puntano alla politica di Pechino di “non interferenza” negli affari interni di altri paesi. Scrivendo per una rivista accademica, Liu Naiya si esaltava a proposito dell’aiuto della Cina a quelli che una volta erano paesi coloniali dell’Africa come “un ‘dono’ rivolto al nazionalismo africano da un paese socialista. In altre parole, si tratta di un investimento politico razionale, una grande dimostrazione dell’amicizia fraterna del comunismo internazionale” (“Mutual Benefit: The Essence of Sino-African Relations—A Response to the Charge of ‘China’s Neocolonialism in Africa’”, Xiya Feizhou [West Asia and Africa], agosto 2006).

Ai portavoce del Pcc piace fare riferimento all’aiuto e all’appoggio diplomatico che la Cina ha dato in passato ad alcuni movimenti in Africa che combatterono per l’indipendenza dal dominio coloniale. Non c’è dubbio che gli aiuti e gli investimenti cinesi hanno spronato lo sviluppo in molti paesi africani. Questo, però, è qualcosa di molto diverso dall’internazionalismo socialista. Gli accordi commerciali della Cina sono firmati alla “condizione politica” che Pechino non faccia nulla che possa turbare i suoi partner borghesi. Di conseguenza, l’aiuto stalinista cinese sostiene l’ordine capitalista che mantiene le masse dei lavoratori africani e dei contadini nella povertà più abominevole. La volontà del Pcc di puntellare regimi borghesi reazionari è stata dimostrata già nel 1955, in occasione della Conferenza per la Solidarietà tra Asia e Africa di Bandung, in Indonesia, dove Zhou Enlai propose i “Cinque principi della coesistenza pacifica”, includendo la promessa di astenersi dal fare pressione su altri paesi per cambiare il loro sistema economico. L’argomentazione “antimperialista” per questo programma di collaborazione di classe, si traduceva nella meschina politica del regime di Mao di coesistenza pacifica con il Giappone, la potenza imperialista dell’Asia.

Un riferimento comune negli argomenti che sostengono le politiche di Pechino è la costruzione, da parte della Cina di Mao, della ferrovia Tanzania-Zambia nella prima metà degli anni settanta. Fu uno sviluppo importante che implicò un enorme investimento di lavoro e abnegazione da parte dei lavoratori cinesi. Allo stesso tempo però, il Pcc dette appoggio politico al regime della Tanzania di Nyerere che represse alcune lotte sindacali di base di lavoratori poveri.

Gli stalinisti cinesi mostrarono così la loro affinità politica alla burocrazia del Cremlino. L’aiuto sovietico fu decisivo nella costruzione della Diga di Aswan in Egitto, completata nel 1970. Assieme a questo sostegno arrivarono i consiglieri militari sovietici, e altro. Infatti, Mosca diede all’Egitto del regime bonapartista di Nasser una quantità di armamenti militari moderni superiore a quelli dati al Vietnam del Nord durante la sua eroica lotta contro l’imperialismo statunitense! Nel frattempo, il Partito comunista sudanese, allineato all’Urss, si asservì all’uomo forte nazionalista borghese Nimerey, tradendo un’opportunità rivoluzionaria che finì in un massacro di comunisti agli inizi degli anni Settanta. Seguendo lo stesso programma di collaborazione di classe, il Partito comunista sudafricano (Sacp) si è immerso per oltre ottant’anni in un’alleanza con l’African National Congress (Anc) e oggi aiuta ad attuare i diktat del capitalismo di neo apartheid partecipando al governo borghese diretto dall’Anc.

I marxisti rivoluzionari riconoscono che lo Stato operaio potrebbe essere obbligato a firmare accordi commerciali e diplomatici con gli Stati capitalisti. Questo, però, non deve essere confuso con il compito del partito comunista di dirigere la rivoluzione proletaria. All’epoca di Lenin, lo Stato operaio sovietico firmò nel 1922 il Trattato di Rapallo con la Germania capitalista, un accordo che includeva la cooperazione militare. Simultaneamente, i bolscevichi stavano dirigendo le forze dell’Internazionale comunista, cercando di forgiare partiti comunisti che potessero dirigere con successo gli operai, non ultimo in Germania, verso la presa del potere.

Un regime rivoluzionario cercherebbe anche di usare risorse all’estero come uno strumento della strategia proletaria internazionalista. Lev Trotsky trattò questo a proposito delle ferrovie orientali cinesi, infrastruttura costruita dalla Russia zarista per aumentare il saccheggio della Cina ma che rimase proprietà dei Soviet in seguito alla Rivoluzione d’Ottobre. Nel 1929, due anni dopo aver massacrato decine di migliaia di comunisti cinesi e altri militanti, il regime di Chiang Kai-shek provocò un conflitto militare con l’Unione Sovietica, allora dominata dalla burocrazia stalinista, per il controllo della ferrovia. Nel suo scritto “La difesa dell’Urss e l’opposizione” (settembre 1929), Trotsky si batté contro coloro che trattavano la politica sovietica a questo proposito come “imperialista”. Egli sottolineava: “Noi consideriamo la Ferrovia della Cina orientale come uno degli strumenti della rivoluzione mondiale e, più immediatamente, delle Rivoluzioni russa e cinese (…) Ma sinché avremo delle possibilità e delle forze, proteggeremo questa linea contro l’imperialismo, preparandoci a consegnarla alla rivoluzione cinese se quest’ultima riesce vittoriosa”.

Trotsky aggiungeva che “il carattere di imprese socialiste di questo tipo”, la sua amministrazione e le condizioni di lavoro “deve essere regolato in modo da sviluppare l’economia e la cultura dei paesi arretrati con l’aiuto del capitale, della tecnica, dell’esperienza degli Stati proletari più ricchi, per il maggior utile delle due parti.” Nel fare una proiezione su come una dittatura proletaria in Inghilterra avrebbe trattato le concessioni degli ex governanti imperialisti in India, scriveva:

“Lo Stato operaio, senza abbandonare le concessioni in questione, dovrebbe farne lo strumento non solo di uno sviluppo economico dell’India ma della sua futura ricostruzione socialista. Va da sé che una tale politica, indispensabile anche nell’interesse del consolidamento di un’Inghilterra socialista, potrebbe essere applicata solo in completo accordo con l’avanguardia del proletariato indiano e dovrebbe assicurare vantaggi evidenti ai contadini dell’India”.

Il tradimento antisovietico del Pcc

La prospettiva delineata da Trotsky è diametralmente opposta al programma nazionalista antirivoluzionario degli stalinisti cinesi. Ciò si è visto palesemente nella criminale alleanza che il regime di Mao strinse con l’imperialismo statunitense contro l’Unione Sovietica, condannata e calunniata da parte dei maoisti come “socialimperialista” e “nemico principale” dei popoli di tutto il mondo. Uno dei frutti di questo tradimento fu la devastazione dell’Angola con decenni di guerra. Dopo aver strappato l’indipendenza dal Portogallo nel 1975, il paese fu gettato in una guerra civile fra tre forze nazionaliste della guerriglia: l’Mpla, l’Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola (Unita) e il Fronte nazionale per la liberazione dell’Angola (Fnla). Inizialmente, come marxisti non abbiamo dato alcun sostegno a nessuno dei contendenti, tutti movimenti piccolo-borghesi e nazionalisti che aspiravano a consolidare un regime borghese. Quella situazione, comunque, cambiò rapidamente.

Sostenuto dall’Unione Sovietica, l’Mpla guadagnò il controllo della maggior parte delle aree chiave, inclusa la capitale Luanda, e dichiarò l’Angola una “repubblica popolare”. In risposta gli Stati Uniti forzarono l’unificazione dell’Unita con l’Fnla e li rifornirono di armi, mentre il Sudafrica e il Portogallo aggiunsero centinaia di loro soldati agli sforzi per rovesciare l’Mpla. La guerra civile si trasformò in una guerra per procura tra l’imperialismo statunitense e lo Stato operaio degenerato sovietico. Per i marxisti la parte con cui schierarsi in questo conflitto era chiara: per la vittoria militare dell’Mpla. La Cina di Mao, però, appoggiò attivamente la coalizione Fnla/Unita finanziata dalla Cia, anche inviando istruttori militari per addestrare i tagliagole anticomunisti. A testimonianza del ruolo della Cina, funzionari statunitensi notarono che Washington fu in grado tagliare “gli aiuti ai movimenti anticomunisti perché soddisfatti del lavoro dei cinesi sul campo” (citato da Le Monde, 5 dicembre 1975). Alla faccia della “non interferenza”!

Mentre le truppe sudafricane conducevano una guerra lampo verso Luanda, l’organo ufficiale della Cina Peking Review (21 novembre 1975) rilasciò una dichiarazione politica ufficiale che condannava “l’espansione e la cruda interferenza dell’Unione sovietica”, rifiutandosi perfino di menzionare l’invasione da parte delle forze armate dell’apartheid! L’aiuto sovietico, in seguito affiancato dall’intervento delle eroiche truppe cubane, fu infine in grado di rovesciare il corso degli eventi e ricacciare i fantocci degli imperialisti e le truppe d’assalto sudafricane. Ma la guerra civile andava per le lunghe. I ponti furono distrutti dalle bombe, le strade rurali e i campi furono minati e le infrastrutture urbane ridotte sul punto di crollare, il tutto si sommava alla preesistente profonda arretratezza del paese.

Le masse angolane hanno pagato col sangue il tradimento degli stalinisti cinesi che in seguito sono stati in grado di avvantaggiarsi dell’immiserimento dell’Angola e di altri paesi dell’Africa sub sahariana a cui essi stessi hanno contribuito. Più fondamentalmente, con i suoi aiuti materiali alle forze antisovietiche reazionarie spalleggiate dagli imperialisti, dal Sudafrica all’Afghanistan negli anni Settanta-Ottanta, il Pcc ha contribuito alla distruzione dell’Urss stessa, una sconfitta catastrofica per gli operai e gli oppressi di tutto il mondo, inclusa la Cina.

Per l’internazionalismo proletario!

Guidati dai ristretti interessi nazionali della burocrazia, gli investimenti statali all’estero spesso costringono le aziende cinesi e i loro manager a combattere contro gli operai che loro stessi assumono. Insieme ai finanziamenti cinesi a miniere, impianti petroliferi e progetti di costruzione apparsi in tutta l’Africa, sono arrivate prove dell’abuso dei lavoratori attraverso pratiche di assunzione discriminatorie, salari bassi e una vera e propria pratica antisindacale. Uno studio citato da Deborah Brautigam in The Dragon’s Gift ha scoperto che le aziende di costruzione cinesi in Namibia violavano le leggi riguardanti la garanzia di un salario minimo e i requisiti di formazione legati all’“azione affermativa”, nello stesso tempo non pagavano la previdenza sociale e altri benefit. Gli operai cinesi in Africa hanno condotto le loro battaglie contro le ingiustizie. Secondo la Brautigam, quando circa 200 operai cinesi delle costruzioni sono entrati in sciopero nella Guinea equatoriale, nel marzo 2008, ne è scaturito un conflitto con le forze di sicurezza e due operai sono stati uccisi.

Un fatto in pratica ignorato sia dalla stampa borghese che da quella di “sinistra” è che molti dei peggiori attacchi a operai africani sono portati avanti da imprenditori privati cinesi che, con l’approvazione di Pechino, si sono attaccati al programma d’investimenti cinesi come delle sanguisughe. Nel 2010, due supervisori cinesi presso la Collum Coal Mine, in Zambia, hanno ucciso 13 minatori durante una protesta salariale. L’anno successivo, le autorità dello Zambia hanno deciso di non sporgere denuncia, suscitando rabbia tra la popolazione. La miniera che la stampa descrisse come “proprietà cinese”, non era di proprietà dello Stato cinese ma di un investitore privato, diretta dai suoi quattro fratelli minori.

I marxisti appoggiano i lavoratori che lottano per i diritti sindacali, per salari decenti e per i loro benefit, incluso quando lottano contro manager cinesi. Allo stesso tempo, è necessario combattere i demagoghi nazionalisti e i dirigenti sindacali traditori che si aggrappano agli abusi fatti agli operai per saltare sul carrozzone degli imperialisti anti cinesi. Ad esempio, la federazione sindacale in Sudafrica, il Cosatu, parte dell’Alleanza tripartitica con l’Anc e il Sacp, ha a lungo inveito contro l’importazione di capi di abbigliamento cinesi che danneggiano la manifattura locale.

Un tale protezionismo promuove la menzogna che il proletariato sudafricano (nella stragrande maggioranza operai neri) abbia un “interesse nazionale” in comune con la classe capitalista sudafricana (nella stragrande maggioranza bianca), rivelando così la bancarotta della pretesa dei burocrati del Cosatu di essere per la solidarietà con la classe operaia internazionale. Fomenta anche la campagna per la controrivoluzione in Cina, rafforzando gli imperialisti la cui potenza economica e militare pone ostacoli formidabili alla rivoluzione proletaria in Sudafrica e altrove.

La difesa della Cina e degli altri Stati operai deformati (Cuba, Corea del Nord, Vietnam e Laos) è di vitale importanza nella lotta per un futuro socialista in Africa, per il quale la classe operaia sudafricana, combattiva e strategicamente concentrata, detiene la chiave. Non si possono ottenere nuove conquiste se non si difendono quelle esistenti!

I marxisti devono anche combattere lo sciovinismo che permea la burocrazia statale cinese e i suoi rappresentanti all’estero. Con bilanci e scadenze determinati da Pechino, le aziende cinesi spesso assumono operai dalla Cina piuttosto che quelli locali. Difendendo tali pratiche, l’amministratore generale della China National Overseas Engineering Corporation, di proprietà dello Stato, ha detto: “Il popolo cinese può sopportare un lavoro molto duro. Questa è una differenza culturale. I cinesi lavorano fino a che finiscono il lavoro, poi si riposano”. Gli operai dello Zambia, ha poi sostenuto lamentandosi, erano “come gli inglesi”: “Fanno la pausa per il tè e hanno tanti giorni di permesso. Per la nostra compagnia di costruzioni significa che i costi sono più alti” (citato da Chris Alden, in China in Africa). Commenti come questi la dicono lunga sul disprezzo che i burocrati cinesi provano sia per gli operai africani sia per quelli cinesi.

Ereditando le operazioni all’estero delle imprese dello Stato cinese, un governo di consigli operai e contadini in Cina farebbe sforzi speciali per assumere e formare operai locali, con diritti sindacali, salario e benefit sopra la media locale. Un tale regime liquiderebbe senza complimenti gli elementi borghesi sorti in Cina a seguito delle “riforme di mercato” che hanno trovato posto anche in Africa. Soprattutto, seguirebbe l’esempio dei primi anni dello Stato operaio sovietico nel promuovere la vittoria del dominio operaio in tutto il mondo. E’ per portare avanti il compito di forgiare partiti leninisti di avanguardia necessari per dirigere questa lotta, che la Lci si batte per riforgiare la Quarta internazionale, il partito mondiale della rivoluzione socialista.

[Tradotto da Workers Vanguard n. 987, 30 settembre 2011]

 

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