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Spartaco n. 78 |
Marzo 2015 |
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Siria, Iraq: i nazionalisti curdi al servizio degli imperialisti
No alla guerra imperialista contro lIsis!
Il 23 settembre scorso il presidente Obama ha dato il via a bombardamenti aerei col presunto obiettivo di asportare “chirurgicamente” il cancro dell’Isis dalle regioni che occupa in Siria. Obama stesso ha però aggiunto che la sua operazione “chirurgica” richiederà molti anni. Intanto in Iraq ci sono ancora circa milleseicento soldati americani ed è certo che in futuro ne arriveranno molti altri. L’isteria contro il “nemico alle porte” fomentata dagli imperialisti che sfruttano le decapitazioni e le atrocità compiute dai fondamentalisti islamici dell’Isis, contribuisce anche ad alimentare ulteriori campagne terroriste degli Stati contro gli immigrati musulmani.
L’ennesima coalizione di “volonterosi” alleati dell’imperialismo Usa, che include i paesi imperialisti dell’Unione Europea (compresa l’Italia che per ora fornisce armi e logistica), comprende anche molti paesi arabi come l’Arabia Saudita e il Qatar, che sono stati importanti finanziatori dell’Isis e delle altre forze jihadiste, affiliate e non ad Al Qaeda. La coalizione è appoggiata anche dal cosiddetto governo “non settario” appena costituito a Baghdad, che guida forze armate coinvolte fino al collo nelle carneficine intercomunitarie che hanno sconvolto l’Iraq. Sul fronte siriano, l’alleanza fornisce armi all’impotente opposizione “democratica” al regime di Bashar al-Assad.
I bombardamenti americani contro le forze reazionarie dell’Isis in Siria sono l’ultimo episodio della serie di guerre e occupazioni imperialiste che hanno fatto a pezzi l’Iraq e altre zone del Medio Oriente, scatenando una spirale di spargimenti di sangue tra le varie etnie e comunità. Dall’inizio delle operazioni Usa contro l’Isis nel Nord dell’Iraq, lo scorso 8 agosto, sono morti numerosi civili e centinaia di combattenti. L’attacco imperialista, pur essendo cinicamente condotto con la scusa della protezione “umanitaria” degli sciiti, dei curdi, dei cristiani, degli yazidi e di tutti coloro che sono minacciati dai tagliagole dell’Isis, mira a rafforzare il controllo imperialista sul Medio Oriente. Il dovere degli operai con coscienza di classe in tutti i paesi è di opporsi ai bombardamenti e a tutte le guerre e occupazioni condotte dagli imperialisti. Giù le mani dall’Iraq e dalla Siria! Fuori tutte le forze imperialiste dal Medio Oriente!
Dopo i primi bombardamenti nel Nord dell’Iraq, abbiamo dichiarato che “qualsiasi forza, per quanto ripugnante, attacchi, respinga o ostacoli in qualsiasi modo le forze Usa, sferra un colpo che è nell’interesse degli sfruttati e degli oppressi” (“Fuori gli Usa dall’Iraq! No all’intervento in Siria!”, Workers Vanguard n. 1051, 5 settembre.) Prima dell’intervento imperialista, i lavoratori del mondo non avevano nessun interesse a sostenere alcuna delle parti coinvolte nei conflitti reazionari in Iraq e in Siria, in cui si fronteggiavano principalmente le comunità sunnite e sciite.
Da allora però le forze del governo iracheno e i peshmerga curdi in Iraq hanno ripreso a condurre operazioni militari congiunte con gli Usa. Le forze peshmerga curde sono state manovrate per anni dagli Stati Uniti nel tentativo di garantirsi che il Kurdistan iracheno, ricco di petrolio, rimanesse un loro Stato cliente, e oggi costituiscono la principale forza sul terreno nei combattimenti contro l’Isis.
Più di recente anche i nazionalisti curdi nel Nord della Siria hanno suggellato un’alleanza traditrice con gli Usa nella battaglia per Kobane, fornendo indicazioni sui bersagli dei bombardamenti e coordinando in vario modo le loro operazioni militari. Il fatto che tutte queste forze facciano da “truppe di terra” dell’intervento imperialista significa che i marxisti rivoluzionari si schierano militarmente dalla parte dell’Isis quando prende di mira gli imperialisti e i loro fantocci, compresi i nazionalisti curdi siriani, i peshmerga, il governo di Baghdad e le milizie sciite.
Nel caso di Kobane, il 16 settembre, la popolazione prevalentemente curda si è trovata sotto assedio dell’Isis e più di duecentomila persone sono state costrette a fuggire oltre il confine turco. All’Isis si sono contrapposti il Partito dell’unione democratica curda (Pyd) e i Comitati per la protezione del popolo (Ypg), che sono affiliati ai nazionalisti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) basato in Turchia. Poi, all’inizio di ottobre, Washington ha deciso di prendere in mano la situazione a Kobane e il Ypg si è messo a disposizione. Secondo un portavoce del Ypg, diversi americani e decine di europei combattono al loro fianco a Kobane. In una intervista rilasciata a metà ottobre al quotidiano turco Radikal, Polat Can, un portavoce del Ypg, ha spiegato che le unità del Ypg operano “di concerto con le forze della coalizione internazionale”, con cui sono “in contatto diretto in termini di intelligence, a livello militare e a livello dei bombardamenti aerei”. Can ha precisato il modo in cui è organizzato il coordinamento: “Una delle nostre unità speciali a Kobane ci passa le coordinate, il Ypg trasmette le coordinate alle forze della coalizione che organizza i raid aerei.” Ha aggiunto: “Abbiamo dei rapporti diretti con la coalizione, senza intermediari. Un rappresentante del Ypg è fisicamente presente presso il centro di comando congiunto e trasmette le coordinate. In effetti, i raid non sarebbero assolutamente possibili senza la partecipazione del Ypg”.
Noi comunisti internazionalisti siamo ovviamente nemici implacabili del programma politico e sociale ultrareazionario dell’Isis, il cui metodo per sradicare gli “apostati” consiste nel massacrarli e condanniamo le atrocità intercomunitarie commesse da tutti i lati. L’Isis è una creatura degli imperialisti, nata dai massacri settari scatenati dall’occupazione dell’Iraq, che ha devastato l’organizzazione sociale di gran parte del Medio Oriente, creando il terreno ideale per la crescita di una miriade di gruppi terroristici islamici. Tra i suoi progenitori (come Al Qaeda) e i suoi rivali (Al Nusra ed altri), molti si sono fatti le ossa come jihadisti nella guerra spalleggiata dalla Cia contro l’Unione Sovietica in Afghanistan negli anni Ottanta. A quell’epoca, i fondamentalisti islamici presero le armi contro un governo nazionalista alleato dell’Unione Sovietica, che aveva cercato di introdurre delle riforme sociali. I mujaheddin afgani erano dei sanguinari tagliagole e dei barbari oscurantisti: una delle pratiche preferite della “resistenza” afgana consisteva nello scuoiare vive le maestre per punirle del “crimine” di insegnare a leggere alle bambine. Dato però che durante la guerra fredda degli anni Ottanta, l’Unione Sovietica era dipinta dai capi imperialisti come “l’impero del male”, la propaganda occidentale glorificava la “eroica resistenza” degli islamisti. La maggioranza della sinistra, in prima linea gli pseudotrotskisti della Lcr (progenitore dell’attuale Sinistra anticapitalista, ex Sinistra critica) e i sostenitori del camaleonte politico argentino Nahuel Moreno (fondatore della Lit, di cui fa parte il Pdac), si unì agli imperialisti nel condannare l’intervento sovietico. I morenisti estesero il loro sostegno persino ai fondamentalisti islamici in Afghanistan e a quelli al potere in Iran, facendo appello alla controrivoluzione islamica fin dentro le frontiere dell’Urss. Al contrario, noi della Lega comunista internazionale abbiamo dato il benvenuto all’intervento sovietico, chiedendo che l’Afghanistan venisse incorporato nel blocco sovietico tramite una rivoluzione sociale dall’esterno. La nostra parola d’ordine di allora era: “Vittoria all’Armata Rossa! Estendere le conquiste dell’Ottobre ai popoli dell’Afghanistan!” (vedi Spartaco n.1, agosto 1980)
Negli anni Novanta gli imperialisti hanno spostato gli islamisti dal campo dei “buoni” a quello dei “cattivi” e nel corso della guerra civile siriana o della campagna della Nato contro la Libia hanno usato e finanziato gli islamisti contro i regimi di Assad e di Gheddafi. Perciò è del tutto possibile che a un certo punto Washington cambi idea e riprenda ad appoggiare l’Isis a certe condizioni, ad esempio contro il regime di Assad in Siria, che nonostante le sue buone intenzioni non è riuscito a entrare nell’alleanza militare Usa.
Ma in questo momento l’Isis è coinvolta in una battaglia contro gli strumenti locali dell’imperialismo americano, il principale nemico dei lavoratori di tutto il mondo. Una battuta di arresto degli Usa in Siria calmerebbe i bollori di Washington, ostacolerebbe le sue avventure militari e incoraggerebbe l’opposizione interna. La lotta di classe contro i governi capitalisti, che nella loro corsa ai profitti calpestano gli operai e gli immigrati, è incoraggiata ogni qualvolta i loro piani imperialisti s’imbattono in qualche ostacolo.
I nazionalisti curdi al servizio degli imperialisti
Le proteste organizzate dai gruppi nazionalisti curdi in Germania, Australia e in altri paesi hanno appoggiato i bombardamenti americani in Siria e chiesto che gli imperialisti rifornissero di armi i curdi siriani. Appelli analoghi sono stati ripetuti da gran parte della sinistra riformista in tutto il mondo, che ha dato credito alla foglia di fico “umanitaria” dell’attacco imperialista. Ad esempio, il Nuovo partito anti-capitalista francese e vari dirigenti di Die Linke in Germania (per non parlare dei verdi tedeschi), hanno chiesto ai rispettivi governi capitalisti di armare i curdi di Kobane.
Su appello del Pkk, migliaia di persone hanno manifestato a Istanbul e in altre città della Turchia, per far pressione sul regime di Erdogan affinché appoggiasse militarmente la lotta di Kobane. Più di trenta manifestanti sono stati uccisi dalla polizia o da assassini islamisti. Finora Erdogan non ha accettato di partecipare alla fragile coalizione capeggiata dagli Usa, che include Gran Bretagna, Francia e Australia, oltre che l’Arabia Saudita e diversi altri paesi del Medio Oriente. Per il governo turco, i nemici principali in Siria sono il governo di Assad e i curdi. Spinta a forza dalla Casa Bianca di Obama, Ankara ha consentito il transito dei peshmerga iracheni verso Kobane, dove Erdogan spera che facciano anche da poliziotti nei confronti dei gruppi allineati col Pkk. Vendendo l’anima agli imperialisti, oltre che ai vari regimi borghesi della regione, i dirigenti curdi aiutano a perpetuare gli stratagemmi del divide et impera che inevitabilmente infiammano le tensioni settarie, nazionali e religiose e intensificano l’oppressione delle masse curde. Un esempio evidente è stato il sanguinoso attacco dell’esercito Usa contro la città irachena di Falluja, in cui i combattenti curdi svolsero un ruolo di primo piano. L’assedio di Falluja, che prese di mira prevalentemente la popolazione sunnita, ha contribuito all’ascesa dell’insurrezione dell’Isis che ha la sua base tra i sunniti.
Noi difendiamo il diritto all’autodeterminazione nazionale per il popolo curdo, che è oppresso dai regimi borghesi dell’Iran, dell’Iraq, della Siria e della Turchia. Ma oggi, in Iraq e in Siria, i partiti nazionalisti stanno subordinando la lotta per i diritti nazionali dei curdi al loro ruolo di alleati degli imperialisti. La stessa cosa avvenne in Iraq dopo il 2003, quando il Partito democratico del Kurdistan (Pdk) e l’Unione patriottica del Kurdistan (Puk) si arruolarono come ausiliari dell’occupazione americana. Appoggiare i curdi in questo conflitto significa appoggiare il saccheggio imperialista. La collaborazione con gli imperialisti è antitetica alla causa stessa della liberazione della nazione curda, che può essere conquistata solo con il rovesciamento da parte del proletariato del Medio Oriente di quattro stati capitalisti e con la creazione di una repubblica socialista del Kurdistan unito. Infatti, quando i leader curdi iracheni hanno recentemente annunciato i piani per un referendum per l’indipendenza da Baghdad, l’amministrazione Obama ha fatto loro sapere, senza mezzi termini, che l’indipendenza curda non è nell’agenda di Washington. Le masse curde devono cercare un’alleanza con il proletariato arabo, persiano e turco, che a sua volta deve essere conquistato al sostegno all’autodeterminazione curda, in una lotta rivoluzionaria rivolta al rovesciamento del dominio capitalista nei quattro paesi che li opprimono per stabilire una Repubblica socialista del Kurdistan unito (vedi “Il popolo curdo e l’occupazione americana dell’Iraq”, Wv n.804 e n.805, 23 maggio e 6 giugno 2003).
La storia della lotta nazionale del popolo curdo è una sequenza di tradimenti da parte dei loro capi nazionalisti, che hanno sistematicamente cercato di ottenere vantaggi facendo favori a varie potenze capitaliste. Un esempio calzante è stato fornito dai leader curdi in Iraq, che hanno collaborato attivamente con l’invasione statunitense del 2003, offrendo i loro peshmerga come forze militari ausiliarie a quelle statunitensi. Oggi Washington e alleati utilizzano i curdi in una guerra per procura contro l’Isis.
La sinistra riformista chiede agli imperialisti di armare le “forze democratiche”.
La storia del Pkk è un po’ diversa da quella dei nazionalisti curdi in Iraq, raccolti attorno al Pdk e al Puk. Molti dei suoi militanti e sostenitori si considerano rivoluzionari e difensori dei diritti delle donne. Il Pkk inoltre presenta i territori del Nord della Siria, che dal 2012 sono controllati e amministrati dal Partito dell’unione democratica curda (Pyd), come un modello di paradiso “autogestito”, benché i rapporti di classe tradizionali in questa regione essenzialmente agricola siano rimasti immutati. Ma la prospettiva del Pkk, come quella di tutti gli altri nazionalisti della regione, è fondamentalmente identica e consiste nel cercare dei protettori tra le varie fazioni locali della borghesia o tra le grandi potenze imperialiste. Offrendo i loro servizi agli imperialisti contro l’Isis, i dirigenti nazionalisti curdi aiutano a rafforzare l’oppressione di tutti i popoli della regione, compreso quello curdo.
Gran parte della sinistra riformista in occidente appoggia la “realpolitik” nazionalista e suicida dei dirigenti curdi, chiedendo a gran voce che gli imperialisti intervengano in “difesa” dei curdi. I falsi trotskisti del Partito di alternativa comunista (Pdac) e del Partito comunista dei lavoratori (Pcl) ad esempio chiedono apertamente che gli imperialisti forniscano “armi a tutte le forze curde” diffondendo così la menzogna suicida che gli imperialisti possano essere usati strumentalmente dai curdi per realizzare l’autodeterminazione nazionale. Mentre il Pdac sostiene che la guerra contro l’Isis è una guerra giusta, il Pcl dichiara “siamo assolutamente contrari all’intervento militare dell’imperialismo”. Ma la verità è che i combattenti peshmerga sono lo strumento pratico usato dagli imperialisti per intervenire nell’area, e in quest’ottica la consegna loro di un quantitativo limitato di armi è funzionale alle mire imperialiste. Questa posizione non è sorprendente provenendo dagli stessi che in nome della “rivoluzione araba” si sono accodati alle “masse libiche” (leggasi: le forze islamiste e filoimperialiste) che sventolavano le bandiere di re Idris, di Francia e Gran Bretagna contro il regime di Gheddafi. Il Pcl ha presentato la ribellione come una rivoluzione nazionale democratica, chiedendo ai “settori di soldati e ufficiali democratici” di Egitto e Tunisia di organizzare brigate volontarie per combattere a fianco degli alleati della Nato. Il Pdac ha descritto la vittoria delle forze islamiste e filoimperialiste libiche come una delle “più grandiose vittorie di cui si è resa protagonista la nostra classe”. Grazie alla vittoria dei “rivoluzionari” libici (secondo il Pdac), ora il paese è sprofondato nel caos e nella barbarie.
Il popolo curdo sarà ancora condannato a pagare per i crimini dei suoi dirigenti. L’interminabile ciclo di guerre, occupazioni e massacri interetnici che attraversa il Medio Oriente è la dimostrazione palese della barbarie dell’ordinamento capitalista mondiale, in cui i governanti degli Stati Uniti detengono un potere dominante.
I frutti amari del divide et impera imperialista
Le guerre civili in Siria e in Iraq sono l’apice di una conflagrazione regionale che dura da anni e che minaccia di estendersi, con l’Isis che promette di allargare le sue operazioni militari in Libano e Giordania. Gruppi affiliati all’Isis stanno estendendo le loro azioni anche in vaste aree della Libia. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è impegnato a sostenere la Giordania se l’Isis dovesse entrarvi. L’Iran ha ammassato truppe al confine con l’Iraq. L’Arabia Saudita ha schierato trentamila soldati al confine con l’Iraq, preoccupata che il califfato proclamato dall’Isis possa trovare sostegno tra le tribù delle sue regioni settentrionali, profondamente legate alle zone della Siria e dell’Iraq attualmente controllate dall’Isis.
I media borghesi attribuiscono gli spargimenti di sangue senza fine in Medio Oriente alle secolari divisioni settarie dell’Islam. In realtà, la responsabilità principale è delle potenze imperialiste europee e più di recente degli Stati Uniti, un lascito della loro tradizione di divide et impera in Iraq e nel resto della regione. Come abbiamo ripetuto sin dall’epoca dell’occupazione imperialista dell’Iraq, l’occupazione rischiava di portare alla “tripartizione dell’Iraq in settori sunnita, sciita e curdo, e a future battaglie per il possesso delle sue riserve petrolifere” (Wv, n. 882, 8 dicembre 2006).
Dalla fine della Seconda guerra mondiale l’imperialismo Usa ha condotto una serie praticamente ininterrotta di guerre, spesso iniziate dal Partito democratico, in cui ha ucciso circa dieci milioni di nemici, nel tentativo di mantenere ed estendere il suo dominio mondiale. Gli apologeti dell’ordine mondiale dominato dagli Stati Uniti vedono il rovesciamento dello Stato operaio degenerato in Urss nel 1991-92 come suo coronamento. Quella controrivoluzione ha portato a una maggiore devastazione delle masse lavoratrici del mondo intero da parte dei loro padroni capitalisti in cerca di profitti. É stata quella sconfitta storica della classe operaia internazionale a portare al disarmo politico di molti dei suoi strati avanzati cancellando la speranza nella superiorità del socialismo e, quindi, nella possibilità di un’alternativa allo sfruttamento e all’oppressione capitalisti.
Un tempo l’Iraq era uno dei paesi più avanzati del Medio Oriente e costituiva un centro culturale per tutta la regione. Poi è stato devastato da più di dieci anni di sanzioni che hanno ridotto alla fame la popolazione, da due guerre devastanti e da un’occupazione militare durata otto anni. Nella loro arroganza, le classi dominanti imperialiste pensavano che nella scia della potenza militare americana avrebbero potuto ridurre all’impotenza qualsiasi nemico. Per sottomettere l’Iraq, bastava avere una potenza di fuoco sufficiente e la volontà di usarla senza troppi scrupoli. Per otto anni, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno impiegato massacri, torture e terrorismo indiscriminato su scala di gran lunga superiore a quella di Saddam Hussein.
Per sostenere il proprio dominio, gli imperialisti americani hanno sistematicamente manovrato uno contro l’altro i settori della popolazione irachena. Dopo l’invasione dell’Iraq del 2003, le forze di occupazione hanno rapidamente eliminato gli ex membri del partito Baath di Saddam Hussein dai posti di potere. In questo modo hanno rimosso la maggioranza dei sunniti dall’amministrazione pubblica, contribuendo a innescare la ribellione della comunità sunnita. Dopo le elezioni del 2005 è stato introdotto un sistema basato sulla condivisione del potere tra le diverse comunità, sul modello del regime confessionale in Libano. In virtù di un accordo informale, il primo ministro iracheno è sciita, il presidente (carica puramente cerimoniale) curdo, e il presidente del parlamento, sunnita. In questo modo, i successivi governi fantoccio sono stati dominati dagli sciiti e in minor misura dai curdi, a scapito della minoranza araba sunnita.
Nel 2006, le autorità di occupazione americane installarono Maliki come primo ministro collaborazionista (sostenendo la sua candidatura anche nel 2010). Maliki ha supervisionato un’ondata di terrore anti sunnita scatenata dall’esercito e dalla polizia a stragrande maggioranza sciita e sostenuta dagli squadroni della morte sciiti. Dopo il ritiro delle truppe da combattimento statunitensi nel dicembre 2011, il conflitto comunitario iniziato sotto l’occupazione si è riacceso. L’opposizione di Maliki alla nomina di sunniti a cariche politiche di primo piano ha suscitato la protesta generalizzata dei sunniti. Nell’aprile del 2013, le truppe governative hanno attaccato un accampamento di protesta nella città settentrionale di Hawija, uccidendo almeno 44 persone. Nel massacro che ne seguì morirono migliaia di civili, sunniti e sciiti. Nel gennaio del 2014, le truppe di Maliki hanno lanciato un attacco di artiglieria contro Falluja e Ramadi. I capi tribali sunniti, che nel 2007 si erano schierati con gli Stati Uniti contro Al Qaeda, hanno finito con il dare il benvenuto alle forze fondamentaliste, ora basate in Siria.
L’Isis (che recentemente si è ribattezzato Stato islamico e non fa più parte di Al Qaeda) ha pubblicato un video sul suo sito web dal titolo Fine di Sykes-Picot. Il titolo fa riferimento all’accordo segreto con il quale la Gran Bretagna e la Francia verso la fine della Prima guerra mondiale si divisero il bottino della loro imminente vittoria contro l’Impero ottomano. Per i reazionari dell’Isis, la distruzione dell’impero turco ha segnato la fine dell’ultimo califfato, un mondo al quale aspirano a tornare. In realtà, la spartizione coloniale dell’Impero ottomano, da cui nacque l’Iraq, conserva ancor oggi un significato proprio perché ha posto le basi per gli scontri comunitari reazionari che stanno esplodendo in tutto il Medio Oriente. L’aggravarsi degli spargimenti di sangue settari in Iraq a sua volta sottolinea il fatto che l’Iraq non è una nazione, ma un mosaico di popoli ed etnie, principalmente arabi sciiti, arabi sunniti e curdi.
A partire dal loro intervento diretto nella regione del Levante nella metà del diciannovesimo secolo, le potenze europee usarono l’una contro l’altra le varie nazioni, etnie e sette. La Francia ha cercato di trarre profitto dalla sua amicizia tradizionale con i cristiani maroniti, che ebbero origine in Siria da una scissione dalla Chiesa orientale di Bisanzio nel settimo secolo. I britannici si proposero come benefattori dei drusi, un ramo dello sciismo del decimo secolo, e la Russia zarista si schierò a protezione dei cristiani ortodossi. Nel 1860, una rivolta contadina, in cui furono requisiti i feudi, distribuite le terre e proclamata una comune contadina, innescò una vasta guerra civile tra maroniti e drusi. Alla vigilia dell’intervento militare francese in quella guerra, Karl Marx scrisse sul New York Daily Tribune (11 agosto 1860):
“I cospiratori di San Pietroburgo e di Parigi, nel caso la tentazione alla Prussia fallisse, si erano tenuti di riserva lo sconvolgente incidente dei massacri siriani, cui doveva far seguito un intervento francese che (
) aprirebbe la porta sul retro a una guerra europea generale. Riguardo all’Inghilterra, aggiungerò solo che nel 1841 Lord Palmerstone diede ai drusi le armi che conservano sin da allora e che, nel 1846, secondo una convenzione con lo Zar Nicola, egli abolì, di fatto, il controllo che i turchi esercitavano sulle tribù selvagge del Libano, stipulando per loro una quasi indipendenza che, col tempo, e con la giusta gestione dei cospiratori stranieri, poteva solo portare a una messe di sangue” (nostra traduzione).
In seguito, i “cospiratori di Pietroburgo e Parigi” si unirono agli inglesi per spartirsi il Levante e il resto del fatiscente Impero ottomano, con il trattato di Sykes-Picot del l916. La Francia si prese la Siria (compreso l’attuale Libano), la Gran Bretagna, la Giordania e la Palestina, contro la volontà delle popolazioni locali. Alla fine del 1917, il neonato Stato operaio sovietico rese pubblico il trattato, smascherando gli intrighi imperialisti con un effetto elettrizzante, che contribuì a innescare una serie di rivolte nazionali e popolari in tutta la regione.
Nella parte francese dell’Impero ottomano, Parigi creò un “Grande Libano”, incorporando le grandi aree musulmane alle tradizionali roccaforti maronite attorno al monte Libano. Come risultato, i maroniti e altre piccole sette cristiane dominarono i musulmani. In Siria, gli imperialisti sostennero il dominio degli alawiti sulla popolazione musulmana a maggioranza sunnita (vedi “La guerra civile in Siria: un lascito del divide et impera imperialista”, Spartaco n. 76, ottobre 2012).
Anche ai curdi fu promesso un proprio Stato, sebbene mutilato, nel Trattato di Sèvres del 1920. Ma non ottennero nemmeno un’espressione deformata di autodeterminazione nazionale. Nel 1920, s’iniziò a capire che l’ex vilayet (provincia) ottomano di Mosul, assegnato alla Francia dal trattato di Sykes-Picot, possedeva molto più petrolio di quanto si pensasse. La Gran Bretagna decise allora di tenersi il Kurdistan meridionale, incorporandolo in un paese appena creato chiamato Iraq, che in pratica corrispondeva alle concessioni della Turkish Petroleum Company, controllata dai britannici. I funzionari statali e gli ufficiali del paese a maggioranza sciita creato dai colonialisti britannici erano esclusivamente sunniti.
Nel 1919, i curdi nel Nord dell’Iraq si rivoltarono contro il dominio inglese. Gli inglesi soffocarono brutalmente la ribellione. L’anno dopo si ribellarono gli sciiti del Sud dell’Iraq, uccidendo o ferendo circa 2.500 soldati schierati dagli inglesi prima che la rivolta fosse soffocata nel sangue. Anticipando di quasi settanta anni l’utilizzo da parte di Saddam Hussein di armi chimiche contro i curdi iracheni, Winston Churchill, all’epoca ministro della guerra britannico, chiese a gran voce di sganciare bombe al gas mostarda contro i ribelli iracheni. Si decise invece di bombardarli con colpi di artiglieria al gas velenoso.
Le lezioni della rivoluzione irachena del 1958
Il fatto che oggi in Medio Oriente l’unica voce che chiede con forza l’annullamento di Sykes-Picot sia quella di un branco di fanatici religiosi che vogliono eliminare chiunque non adori la loro divinità preferita è un triste segno dei tempi. Non è sempre stato così, e non rimarrà così per sempre.
Noi ci basiamo sul programma e sull’esperienza del Partito bolscevico di V.I. Lenin, che ha guidato la Rivoluzione russa del 1917, che ebbe un enorme impatto sul Medio Oriente. Ma ben prima che partiti comunisti di massa fossero in grado di mettere radici nella regione, una casta burocratica conservatrice guidata da Stalin usurpò il potere politico nello Stato operaio sovietico. Questa burocrazia dominante ripudiò il programma bolscevico della rivoluzione socialista internazionale a favore della “costruzione del socialismo in un solo paese” e del suo corollario, la “coesistenza pacifica” con l’imperialismo. In Medio Oriente e nel resto del mondo coloniale, questa visione si è espressa nel sostegno della “rivoluzione a tappe”, che significava il sostegno ad un’ala apparentemente progressista della borghesia, mentre la rivoluzione proletaria veniva rinviata a tempo indefinito.
Tuttavia, i grandi partiti comunisti stalinisti emersi a metà degli anni Trenta e Quaranta in molti paesi arabi attirarono i lavoratori con più alta coscienza di classe e gli intellettuali radicali. In genere, questi partiti si basavano sulle diverse minoranze. In Egitto, i vari gruppi comunisti furono tutti formati da ebrei egiziani. Tra i dirigenti del Partito comunista iracheno vi erano curdi ed ebrei (vedi “Medio Oriente, 1950: rivoluzione permanente contro nazionalismo borghese”, Wv n. 740 e 741, 25 agosto e 8 settembre 2000).
In Medio Oriente la classe operaia vanta una ricca tradizione di lotte, il cui punto culminante fu la rivoluzione irachena del 1958, stimolata dal rovesciamento della monarchia da parte di un gruppo di ufficiali nazionalisti di sinistra. Il Paese si sollevò. Non appena i lavoratori diedero il via a manifestazioni di massa nelle città, alcune con un milione di persone, i contadini organizzarono insurrezioni nelle campagne, uccidendo i latifondisti ed espropriando le terre. Il Pc iracheno era appoggiato dalla stragrande maggioranza della classe operaia, composta di varie nazionalità. Godeva anche del sostegno di molti altri strati della popolazione, compreso l’esercito e alcuni settori del corpo degli ufficiali. Il Partito comunista iracheno avrebbe potuto certamente prendere il potere. Gli Stati Uniti inviarono i marines in Libano per essere pronti a una possibile invasione dell’Iraq. La rivoluzione socialista era all’ordine del giorno.
Isaac Deutscher, lo storico e biografo del dirigente bolscevico Leon Trotsky, scrisse che: “La maggior parte degli osservatori occidentali sul posto erano d’accordo che Kassem [il nazionalista al potere col sostegno del Pc iracheno] non avrebbe potuto reggere contro un’offensiva comunista a tutto campo.” Ma nell’interesse della “coesistenza pacifica” con gli Stati Uniti, la burocrazia sovietica svendette la rivoluzione, ordinando al Pc iracheno di rinunciare. Influenzato dal programma di “rivoluzione a due tappe” il Pc iracheno si accodò, frenando il movimento.
Mentre si trovava sulla cresta dell’ondata rivoluzionaria, il Pc continuava a subordinarsi al nazionalista di sinistra Kassem che stava realizzando una presunta rivoluzione “antimperialista”. Naturalmente, la promessa seconda fase della rivoluzione socialista non arrivò mai. Invece, Kassem si rivolse contro il Pc. Nel 1963, il partito reazionario nazionalista Baath, che includeva Saddam Hussein (allora non ancora un leader nazionale), salì al potere e realizzò un bagno di sangue di migliaia di lavoratori di sinistra utilizzando liste fornite dalla Cia.
L’Iraq di oggi è una società distrutta. Il futuro delle masse irachene dipende dalla lotta della classe operaia nei paesi limitrofi, dove esistono concentrazioni strategiche di potere proletario. Non ci illudiamo che conquistare i lavoratori del Medio Oriente, schiacciati dai loro governanti capitalisti e dai padroni imperialisti, al programma marxista della rivoluzione proletaria, sarà un compito facile. Ma non ci sarà fine all’oppressione etnica e nazionale, nessuna emancipazione delle donne, nessuna fine allo sfruttamento dei lavoratori senza la distruzione dell’ordine capitalista. L’obiettivo dei marxisti nei centri imperialisti è di instillare nel proletariato la comprensione del suo potere sociale, della forza e dell’interesse storico a distruggere il potere dei capitalisti imperialisti dall’interno, con una rivoluzione socialista. Per realizzare questo compito è necessario costruire dei partiti operai rivoluzionari, sezioni di una Quarta intenazionale riforgiata, dediti alla lotta per il potere operaio in tutto il mondo.
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