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Spartaco n. 82

Ottobre 2018

Il crollo del ponte Morandi

Il capitalismo in decadenza fa a pezzi le infrastrutture

Espropriazione senza indennizzo sotto controllo operaio!

Il 14 agosto, il ponte Morandi di Genova è crollato facendo 43 morti e 16 feriti, costringendo all’evacuazione di più di 600 persone del quartiere operaio di Sampierdarena e danneggiando per anni l’economia della città. E chi è morto nel crollo del ponte? Famiglie di lavoratori in viaggio per le vacanze, camionisti, operai della nettezza urbana, immigrati. Di sicuro non gli sciacalli che possiedono Società Autostrade, in testa la famiglia Benetton, che dal giorno successivo hanno preteso indennizzi miliardari in caso di revoca della concessione e minacciato querele per la svalutazione delle azioni!

Dopo la strage, abbiamo assistito al rituale ipocrita dei “funerali di Stato” (rifiutati dai familiari della metà delle vittime). I politicanti capitalisti, a partire dal trio Conte-Salvini-Di Maio hanno “pregato” per le vittime, esaltato l’eroismo dei soccorritori, chiesto commissioni d’inchiesta e la punizione dei “responsabili”. Tutti sanno a cosa servono queste “commissioni d’inchiesta”. A insabbiare la verità o a trovare qualche capro espiatorio che salvi la faccia ai veri responsabili: le grandi famiglie capitaliste che si sono arricchite con i tagli alla manutenzione, i governi che hanno svenduto le autostrade ai privati, gli euro-imperialisti che hanno imposto diktat di austerità. Alla base di tutto c’è la nuda sete di profitti che governa l’intero sistema capitalista a vantaggio di un pugno di sfruttatori. Il capitalismo è incapace di soddisfare le esigenze fondamentali della popolazione e minaccia costantemente la nostra salute e sicurezza.

Un crimine per il profitto

Il crollo del ponte Morandi ha fatto luce sul funzionamento anarchico e decadente del capitalismo italiano. Dalle Alpi alla Sicilia, i ponti, le strade, gli aeroporti, i trasporti pubblici sono una bomba a orologeria. Ogni scossa sismica, anche di lieve entità, lascia una scia di morti, distruggendo case, scuole, edifici pubblici costruiti senza la minima misura antisismica.

Sotto il capitalismo, le tecniche ingegneristiche, come ogni altra tecnologia, obbediscono alla logica del profitto. Il ponte di Genova, costruito tra il 1963 e il 1967 con la tecnica della sospensione a grandi pilastri tramite tiranti in cemento armato, si dimostrò subito un fallimento. Secondo l’ingegner Saverio Ferrari, un assistente di Morandi, la società che costruì il ponte, la “Società Italiana condotte d’acqua” (all’epoca controllata dal Vaticano) gettò i pali di fondazione senza usare materiali antisismici e con collaudi inadeguati che ne mascheravano i problemi strutturali. Come molti ponti simili, il ponte Morandi era privo di ridondanze: il cedimento di un qualsiasi elemento strutturale avrebbe comportato il crollo del ponte. Il ponte fu progettato senza tenere adeguatamente conto della corrosione e della perdita di tenuta degli elementi strutturali e per risparmiare la società costruttrice usò meno cavi d’acciaio di quelli previsti e senza guaine anti-corrosione. La Commissione ministeriale incaricata di analizzare il crollo ha riscontrato che nella parte di ponte sopravvissuta al crollo c’era addirittura “uno stato di degrado dei materiali di grado più elevato, 4 su una scala di 5, rispetto a quello che era stato riscontrato nella pila n.9 crollata, che risultava di livello 3”!

La pericolosità del ponte era nota ai suoi gestori e a Genova la cosa era talmente risaputa che nel 2012 il presidente di Confindustria affermò polemicamente: “quando tra dieci anni il ponte Morandi crollerà, tutti dovremo stare in coda nel traffico per delle ore”. Di anni ne sono passati sei e mezzo: il ponte è crollato prima.

I ponti, come qualsiasi infrastruttura, richiedono manutenzione, pulizia e verniciature anti-corrosione. Ma spesso anche la manutenzione di routine viene trascurata perché i gestori vogliono risparmiare o perché gli enti pubblici incaricati della viabilità ordinaria sono affamati dai tagli di bilancio dei governi. Di fronte a ponti vecchi e con gravi difetti di costruzione, il buon senso imporrebbe che come minimo si riducesse il traffico, si facesse la manutenzione urgente e si sostituissero i ponti. Invece, Società autostrade ha continuato ad intascare pedaggi ai caselli, condannando a morte quelli che si sono trovati sul ponte nel momento sbagliato.

La privatizzazione: una gallina dalle uova d’oro!

Una causa della catastrofe di Genova è la privatizzazione della gestione autostradale. Le autostrade sono state costruite con fondi pubblici negli anni Cinquanta e Sessanta e gestite dallo Stato. La borghesia italiana, uscita sconfitta dalla Seconda guerra mondiale, non sarebbe stata in grado di affrontare gli investimenti necessari a realizzare le infrastrutture indispensabili alla ripresa industriale e a mantenere il controllo in un paese scosso da sollevamenti sociali, con un proletariato organizzato che vedeva nel socialismo la realizzazione delle sue aspirazioni. Così lo Stato, sotto l’ombrello anticomunista della Nato e del Piano Marshall, si fece carico di realizzarle con finanziamenti pubblici. La distruzione controrivoluzionaria dell’Urss all’inizio degli anni Novanta, liberò i capitalisti dallo “spettro” del comunismo, consentendogli di disfarsi dello “Stato sociale” e di privatizzare le infrastrutture facendone una fonte di profitti facili e immediati, senza doversi accollare spese di costruzione.

A partire dal 1991 varie direttive della Comunità economica europea e dell’Ue imposero la separazione tra la proprietà e la gestione delle reti infrastrutturali (le ferrovie, seguite da gasdotti, autostrade, ecc..) per consentire ai grandi gruppi finanziari europei di impadronirsi di mercati monopolistici a costo praticamente zero. Furono i governi di “centrosinistra” di Prodi e D’Alema (appoggiati da Rifondazione comunista e Comunisti italiani) a regalare nel 1999 le autostrade ai Benetton, i quali non dovettero sborsare una lira in una operazione finanziata dalle banche. Fu il governo Prodi, nel 2007, a stipulare la convenzione con Autostrade che demandava loro la gestione della sicurezza (e la Lega nord ha partecipato al rinnovo delle concessioni).

Nel giro di pochi anni, dei circa 6.500 chilometri di autostrade italiane, 5.500 vennero date in gestione a privati, lasciando allo Stato solo quelle più disastrate e meno redditizie (la Salerno-Reggio Calabria e la Palermo-Catania). Le concessioni autostradali prevedevano condizioni da repubblica delle banane: un affitto pari al 2,4 percento del pedaggio, profitti garantiti al 4 percento, investimenti minimi e penali stratosferiche per lo Stato in caso di rescissione. I concessionari autostradali sono dei parassiti che fanno profitti sproporzionati rispetto a tutti gli altri settori capitalisti: Autostrade per l’Italia nel 2013-2017 ha fatto 4,05 miliardi di utili, distribuendo 3,75 miliardi agli azionisti. Nel 2016, su 5,7 miliardi incassati, le spese di manutenzione ammontavano a 646 milioni.

Il capitalismo in decadenza abbandona le infrastrutture

La costruzione di infrastrutture è stata fondamentale per l’industrializzazione e la “costruzione delle nazioni” capitaliste a cavallo tra Diciannovesimo e Ventesimo secolo, una storia scritta a suon di profitti, corruzione e morti. Storicamente, gli Stati capitalisti hanno costruito importanti opere pubbliche quando servivano agli interessi delle proprie borghesie, nei periodi di espansione economica o in preparazione delle guerre. Alla fine dell’Ottocento, lo Stato unitario promosse la crescita del capitalismo costruendo una vasta rete ferroviaria, che doveva servire a creare un mercato unitario e a favorire la crescita di una borghesia domestica. In seguito, le aspirazioni imperialiste italiane nel Mediterraneo, spinsero lo Stato ad un vasto programma di costruzioni navali. E nel “boom” del secondo dopoguerra, fu costruita la gran parte dell’attuale rete autostradale.

Ma adesso i governi capitalisti falcidiano le spese infrastrutturali tanto che ad ogni pioggia, o anche col bel tempo, si contano i morti dovuti a frane, esondazioni, crolli di ponti e deragliamenti ferroviari. I numeri parlano da soli. Nel 2001, un decreto del governo stabilì che le spese per le manutenzioni delle strade statali dovevano essere fissate a 60 mila euro a chilometro. Invece, secondo un consigliere della Città metropolitana di Genova, “Fino a pochi anni fa si riusciva ad arrivare a 6-7 mila, adesso, con gli ultimi tagli, siamo a 3 mila”.

Gli appalti per la manutenzione vengono spesso affidati al massimo ribasso, favorendo le aziende che usano materiali più scadenti, che strozzano i lavoratori e sono disposte a “ungere” la burocrazia statale. Un operaio che lavora alle installazioni telefoniche sulle autostrade della Liguria, ha spiegato che le misure di sicurezza per chi lavora alla manutenzione sono insufficienti perché

“Autostrade dà la precedenza al traffico e non ai lavori e siamo costretti a lavorare su riduzione di carreggiata anziché sulla chiusura (…) Ci sono dei lavoratori, di altre aziende, che mettono le segnaletiche per noi e [sic] farci lavorare: quelli sono i più a rischio di tutti. Io li chiamo kamikaze perché a loro non li protegge nessuno: camminano con i segnali lungo carreggiate, strade, gallerie e viadotti, attraversano le carreggiate senza alcun segnale e avvertimento a proteggerli”.

Condizioni del genere esistono in molti posti di lavoro, fabbriche e cantieri, col risultato che ogni anno ci sono più di mille morti sul lavoro e seicentomila infortuni (ufficialmente).

L’ipocrisia con cui i capitalisti piangono sulla “sicurezza” mentre rifiutano criminalmente di spendere un euro per prevenire la perdita di vite umane, è stata dimostrata per l’ennesima volta dal governo Renzi dopo il terremoto dell’Abruzzo, nell’estate del 2016, in cui morirono trecento persone. Il governo lanciò con gran fanfara il piano “Casa Italia” destinato a durare cinquant’anni e a coinvolgere due generazioni. Secondo gli stessi dati di “Casa Italia”, per rendere l'Italia a prova di terremoto servirebbero da 36 a 850 miliardi di euro (circa la metà del Pil italiano) a seconda che ci si limiti alle sole abitazioni in muratura dei comuni più a rischio, o si intervenga a livello nazionale sulle case costruite senza metodologie antisismiche. Ma “Casa Italia” è rimasta una leggenda: il governo si è limitato a stanziare tre miliardi in tre anni (2017, 2018 e 2019) per poi avviare solo dieci cantieri con uno stanziamento di… 25 milioni di euro!

A simboleggiare la vera storia dei piani “antisismici” della borghesia italiana c’è il caso di Messina, rasa al suolo da un terremoto nel 1908. E’ difficile crederci, ma molte delle baracche “provvisorie” dei terremotati di allora sono ancora lì: nel 2008 ci abitavano più di tremila persone in condizioni di orribile degrado. Come scrisse il Corriere della Sera: “sopravvissute al re e al fascismo, a due guerre mondiali e pure ai 61 governi della Repubblica. Monumenti (con) viventi a un secolo d’Italia”.

L’Unione Europea: privatizzazioni, austerità e tagli

Dopo il crollo, Salvini ha affermato: “Se ci sono vincoli europei che ci impediscono di spendere soldi per mettere in sicurezza le scuole dove vanno i nostri figli o le autostrade su cui viaggiano i nostri lavoratori, metteremo davanti a tutto e a tutti la sicurezza degli italiani”. Confindustria è subito corsa in aiuto all’Ue, facendo scrivere al Sole 24 ore che “né l’Unione Europea né i cosiddetti ‘vincoli di spesa’ hanno alcun legame con la gestione nazionale dei ponti (e le sue negligenze).”

E’ evidente che Salvini spera di usare l’Ue per dare un alibi alla Lega, che nel 2008 ha approvato le concessioni d’oro a Società Autostrade. Ma è un dato di fatto che l’Ue ha svolto un ruolo decisivo nell’imporre le privatizzazioni e i tagli di bilancio che sono alla base tra l’altro dello stato fatiscente delle infrastrutture. L’Ue è un blocco reazionario degli imperialisti d’Europa, guidato dalla Germania, che serve a rafforzare la loro posizione nella competizione internazionale, uno strumento per saccheggiare i paesi dipendenti dell’Europa meridionale e orientale, aumentare lo sfruttamento delle classi operaie d’Europa e per controllare i flussi di manodopera immigrata. Abbattere l’Ue con la lotta di classe!

Sotto la sferza dei diktat finanziari dell’Ue, i governi capitalisti europei hanno lanciato un’offensiva a tutto campo contro la classe operaia, riducendo salari e diritti e falcidiando le spese in tutti i servizi pubblici. Ne hanno fatto le spese anche gli investimenti in infrastrutture e manutenzione, che in Italia si sono più che dimezzati, passando da 21 miliardi nel 2007 a circa 8 nel 2013 e in generale la spesa per investimenti pubblici scesa dal 3,1% del Pil del 1991, al 2,1% del 2016. Nel 2016, l’Italia ha toccato il minimo storico nel consumo di asfalto: sono state impiegate nella manutenzione del manto stradale appena 22 milioni di tonnellate di conglomerato bituminoso, il 23,2% in meno rispetto al 2010, la metà rispetto a 10 anni prima.

Espropriazione senza indennizzo di autostrade e infrastrutture

Nei primi giorni di indignazione popolare dopo la strage di Genova, alcuni ministri del M5s hanno ventilato la possibilità di revocare la concessione ad Autostrade per l’Italia e persino di nazionalizzare il settore autostradale. Sentendo parlare di “nazionalizzazioni”, i mass media dei capitalisti e i loro servi del Partito democratico sono insorti strillando in difesa del sacro diritto della proprietà privata che include quello della borghesia di mungere lo Stato. Nel mese di agosto, il governo è stato messo sotto pressione dalle banche che hanno iniziato a vendere titoli di Stato dell’Italia facendo aumentare gli interessi sui suoi debiti e hanno agitato lo spettro di una fuga degli investitori. Dopo qualche settimana, il Primo ministro Conte ha enfaticamente dichiarato a un convegno di rappresentanti dell’alta finanza di non volere alcuna nazionalizzazione.

Noi esigiamo l’espropriazione immediata, senza indennizzo e sotto controllo operaio di tutte le infrastrutture fondamentali del Paese: ferrovie, autostrade, porti e altre reti infrastrutturali ora gestite da parassiti capitalisti che si ingrassano mettendo a rischio l’incolumità della popolazione. Lasciare in balia di profittatori un aspetto così importante della vita sociale è una scelta irrazionale e in definitiva omicida. Ma contrastiamo qualsiasi illusione che lo Stato capitalista, strumento dell’oppressione borghese, possa gestirle in favore del proletariato.

La lotta per l’espropriazione di autostrade e delle altre infrastrutture in mano a privati dev’essere condotta da un movimento operaio combattivo e determinato ad usare la sua forza per imporre l’adozione di tutti gli standard di sicurezza necessari, alla faccia dei bilanci aziendali. Inoltre bisogna rivendicare un massiccio programma di lavori pubblici per ricostruire e ammodernare le infrastrutture di un Paese dove molte case risalgono al Medio evo. La classe operaia organizzata dovrebbe controllare i lavori pubblici per impedire costruzioni al risparmio o progetti pericolosi e per garantire che la manutenzione non sia vittima di tagli di bilancio. E’ evidente che il piano di ricostruzione necessario si scontrerebbe con i profitti dei capitalisti e con i diktat finanziari dell’Unione Europea. Ma gli operai devono lottare per i loro bisogni, che vanno necessariamente contro i profitti dei padroni e l’Ue. Per questo noi rivendichiamo: abbattere la disoccupazione dividendo tutto il lavoro esistente tra tutta la manodopera disponibile, a parità di salario.

Per realizzare queste rivendicazioni non è possibile affidarsi ai partiti della classe nemica o alla democrazia parlamentare che ne maschera il dominio, ma serve una mobilitazione combattiva e indipendente degli operai. Come spiega il programma rivoluzionario della Quarta internazionale:

“L’elaborazione dal punto di vista degli interessi degli sfruttati, e non di quelli degli sfruttatori, di un piano economico, anche del più elementare, è impossibile senza controllo operaio, e cioè senza che l’occhio degli operai penetri in tutti i meccanismi, visibili e nascosti, dell’economia capitalista. I comitati delle singole fabbriche devono riunirsi in conferenze per eleggere i comitati di grande gruppo di ramo industriale, di regione economica e infine dell’industria nazionale nel suo insieme. Così il controllo diventa una scuola di economia pianificata”. (Programma di transizione, 1938)

Per guidare questa lotta bisogna costruire un partito operaio rivoluzionario, che si basi sui principi della lotta di classe e non della collaborazione di classe con gli sfruttatori capitalisti! Il benessere della popolazione si può garantire solo espropriando l’intera classe capitalista con una rivoluzione operaia e creando un’economia collettivizzata, pianificata in base ai bisogni umani e non ai profitti.

Per l’indipendenza di classe degli operai

Una lotta di classe degli operai per la sicurezza e per la ricostruzione di questo paese avrebbe un’eco in tutta la società. Ma la precondizione perché questa possa svilupparsi è che gli operai rompano con la concezione dominante di essere solo una componente del “popolo”, cittadini uguali agli altri di fronte alla legge, e si vedano per quello che sono: la classe sociale il cui sfruttamento sostiene tutto l’edificio capitalista, l’unica che ha i numeri, la forza e l’interesse di rovesciarlo.

Per questo, serve una battaglia politica, che va portata avanti soprattutto nei sindacati, contro i dirigenti traditori che sostengono il sistema omicida dei profitti e legano gli operai al capitalismo, generalmente tramite il Partito democratico ma adesso anche attraverso il M5s.

Sinistra, Classe, Rivoluzione (Scr) un gruppo che si dice marxista, dopo aver sostenuto per anni la collaborazione di classe con la borghesia, come parte integrante di Rifondazione comunista, da qualche tempo si accoda direttamente al populismo borghese di destra incarnato dal M5s. Scr presenta il M5s come un alleato (per quanto esitante) dei lavoratori. In un articolo sulle nazionalizzazioni, Scr ha scritto che l’isteria dei media contro la nazionalizzazione di Autostrade:

“dimostra che lo scontro è di fondo. Proprio per questo i 5 Stelle non sono in grado condurlo fino in fondo con coerenza. Il punto è semplice. I pentastellati, da Di Maio in giù, sono schiavi della religione della ‘legalità’, non conoscono altro concetto, non vedono, non capiscono e non intendono che la legge è la legge del capitale e che questo scontro non è un minuetto per avvocati, ma uno scontro di classe che coinvolge gli interessi di milioni di persone. Può essere vinto solo se queste non rimangono spettatrici, ma entrano in prima persona nel conflitto”. (Rivoluzione, 30 settembre 2018)

Limitarsi a denunciare la “cecità” del M5s sulla natura di classe delle leggi, significa celarne la vera natura di partito capitalista, nemico di classe degli operai.

Ripetendo la fraseologia del populismo borghese, Scr fa appello a “milioni di persone”, senza distinzione di classe, a entrare “in prima persona nel conflitto”. Anche questo tipo di appelli rivelano come Scr si accodi al populismo pentastellato, cancellando l’idea marxista fondamentale che la società moderna è divisa in due classi fondamentali, il proletariato e la borghesia, che hanno interessi contrapposti. Solo la classe operaia, “entrando nel conflitto” in modo organizzato e consapevole, può concretizzare l’interesse e la forza che ha di abbattere l’ordinamento capitalista, perché è l’unica classe che non ha alcun interesse al mantenimento della proprietà privata dei mezzi di produzione, a differenza di tutti i settori della piccola borghesia.

Per farlo però gli operai devono capire chiaramente che il M5s o il Partito democratico non sono e non possono essere al loro fianco, perché sono partiti della classe degli sfruttatori.

Rompere con il populismo borghese

Il M5s non è in nessun modo un alleato dei lavoratori, ma una forza antioperaia che non ha mai nascosto la sua completa ostilità ai sindacati. Uno dei punti alla base del suo programma è l’opposizione a ogni sorta di costruzioni infrastrutturali, anche a quelle tecnologicamente più semplici (gasdotti, ferrovie, autostrade, pozzi petroliferi e persino turbine eoliche). Anche se, tra corruzione e disprezzo per le minime regole di sicurezza e salute, i capitalisti italiani non fanno certo mancare i motivi di sospetto, l’opposizione reazionaria alle “grandi opere” si basa sugli interessi economici ristretti di strati piccoloborghesi ostili al proletariato industriale e fautori di uno “sviluppo alternativo”, basato sul turismo o sulla piccola agricoltura, che sarebbe un disastro per la classe lavoratrice. A Genova, nel 2013, nella sua retrograda opposizione alla costruzione di un percorso stradale alternativo al ponte Morandi (la Gronda) il M5s arrivò a ridicolizzare la “favoletta dell’imminente crollo del ponte Morandi”.

Gli operai hanno tutto l’interesse a lottare per il progresso tecnologico, l’espansione dell’industria e infrastrutture moderne. Il fatto che il sistema capitalista non sia in grado di garantirne la sicurezza, è una ragione in più per rovesciare il capitalismo e imporre il potere operaio!

Nel caso più eclatante, prima di andare al governo, il M5s ha richiesto a gran voce di “chiudere, smantellare, bonificare”, l’acciaieria dell’Ilva di Taranto, la sola grande fabbrica della regione, con la perdita di migliaia di posti di lavoro sindacalizzati, in cambio della promessa di “riqualificazione dei lavoratori” (in una regione dominata dalla disoccupazione!). Gli operai di Taranto hanno giustamente lottato per la difesa dei loro posti di lavoro, rivendicando allo stesso tempo condizioni di lavoro e ambientali decenti, della cui mancanza sono proprio loro le prime vittime.

Una volta al governo, il M5s ha rinunciato alla sua opposizione all’acciaieria, firmando l’accordo con Arcelor-Mittal e il gruppo Marcegaglia, non perché abbia a cuore gli interessi degli operai o della popolazione di Taranto, ma per garantire il flusso dei profitti nelle tasche dei padroni. L’accordo con l’Ilva è praticamente identico a quello proposto mesi fa dal Pd e ruota intorno al fatto che verranno lasciati a casa più di tremila lavoratori (su 14.000) con la possibilità di tagliare altre duemila unità tra cinque anni! I debiti e i disastri ambientali causati dalla vecchia Ilva della famiglia Riva, vengono accollati allo Stato a spese dei lavoratori.

I dirigenti sindacali traditori hanno presentato questo accordo come una vittoria (nelle condizioni date). Anche la “sinistra” sindacale (cioè i burocrati alla testa di Fiom e Usb) ha accettato di bloccare l’unica giornata di sciopero prevista, incitando gli operai a sottoscrivere l’accordo e ringraziando personalmente “il ministro Di Maio” (per bocca di Sergio Bellavita di Usb).

Bellavita, un dirigente sindacale legato agli pseudo-trotskisti di Sinistra anticapitalista, ha presentato come principale punto dolente dell’accordo il fatto che “il nostro Paese perde un pezzo importante del suo patrimonio industriale, che finisce nelle mani di una multinazionale”. Come se per gli operai facesse differenza che a sfruttarli sia padron Riva o una “multinazionale” francese (in società tra l’altro con l’italianissimo gruppo Marcegaglia!) Parlando di un presunto “interesse nazionale” comune agli operai e ai loro sfruttatori, Bellavita e l’Usb non fanno che disarmare le lotte operaie.

Lo Stato borghese: uno strumento dei padroni

Riguardo alle nazionalizzazioni, la sinistra riformista fa scomparire anche un altro elemento decisivo del marxismo: la concezione dello Stato capitalista.

Nell’articolo sulle nazionalizzazioni già citato, sempre Scr scrive che la nazionalizzazione delle autostrade (da parte del M5s) “deve essere il primo passo di un programma generale di nazionalizzazioni ed espropri su vasta scala, che inverta il saccheggio fatto nei trent’anni passati e crei le condizioni basilari per un’economia finalmente svincolata dal profitto, dallo sfruttamento, dalla speculazione e posta al servizio dei lavoratori e di tutti gli strati popolari”.

Di per sé la nazionalizzazione delle autostrade è una misura così poco “socialista”, che a suo tempo la attuò la Democrazia cristiana. Oggi le autostrade sono nazionalizzate nella borghesissima Svizzera e altrove. Di fronte ad acute crisi di un settore industriale (come quella indotta dal crollo di Genova) i governi capitalisti fanno a volte ricorso alle nazionalizzazioni come strumento per salvare settori che svolgono un ruolo chiave per l’intero sistema capitalista. In Gran Bretagna, nel secondo dopoguerra, il governo laburista, sotto pressione dalle masse operaie, nazionalizzò numerosi settori industriali ridotti in crisi dalla guerra, al fine di salvare l’imperialismo britannico. In Italia, le nazionalizzazioni più ampie furono condotte dal regime fascista e da quello democristiano, per consentire all’asfittico capitalismo nazionale di sopravvivere alla competizione sui mercati mondiali. Come spiegò il rivoluzionario russo Lev Trotsky:

“Lo statalismo – sia nell’Italia di Mussolini, nella Germania di Hitler, negli Stati Uniti di Roosevelt che nella Francia di Léon Blum – significa l’intervento dello Stato sulle basi della proprietà privata, per salvare la proprietà privata. Quali che siano i programmi dei governi, lo statalismo consiste inevitabilmente nel trasferire dai più forti ai più deboli i gravami di un sistema in putrefazione” (La rivoluzione tradita, 1936).

Sostenere che si possa arrivare a “un’economia finalmente svincolata dal profitto, dallo sfruttamento, dalla speculazione e posta al servizio dei lavoratori e di tutti gli strati popolari” (vale a dire, al socialismo), attraverso una serie di nazionalizzazioni compiute da governi capitalisti, è la classica ricetta del riformismo, che illude i lavoratori che si possa trasformare la società senza una rivoluzione sociale, senza strappare ai padroni il potere che detengono. Tutta la storia del Ventesimo secolo ha insegnato sanguinosamente agli operai che, ogni qualvolta hanno tentato di creare una società “svincolata” dal profitto, si sono trovati davanti il manganello e il fucile.

Lo Stato capitalista e i suoi governi sono strumenti di dominio delle “grandi famiglie” capitaliste che si servono di polizia, esercito e tribunali per difendere la proprietà privata dei mezzi di produzione (fabbriche, infrastrutture, ecc.). Lo Stato capitalista gestisce le strutture “pubbliche” solo nell’interesse della classe dominante. L’unico modo per creare “un’economia finalmente svincolata dal profitto, dallo sfruttamento, dalla speculazione e posta al servizio dei lavoratori e di tutti gli strati popolari” è una rivoluzione proletaria che crei un governo operaio, dove il potere statale sia nelle mani di consigli operai organizzati su scala nazionale.

La classe operaia non deve fare nessun affidamento sullo Stato capitalista e sui suoi governi, ma deve fidarsi solo della sua forza organizzata. L’espropriazione delle infrastrutture deve essere legata alla prospettiva di distruggere la macchina dello Stato borghese e fare dell’intera ricchezza della società una proprietà collettiva, gestita in maniera pianificata per il benessere di tutta la popolazione lavoratrice. Per far ciò è fondamentale che il proletariato sia guidato da un partito comunista e non da impostori che si accodano a qualsiasi forza che sia in quel momento “alla moda”.

Per un’economia collettivizzata, per il potere operaio!

I capitalisti e i loro politici hanno dimostrato ampiamente e ripetutamente di essere dei nemici del progresso dell’umanità. Nel 1938, Lev Trotsky, che insieme a Lenin aveva guidato la Rivoluzione d’Ottobre del 1917, proclamò nel Programma di transizione, il documento di fondazione della Quarta internazionale:

“si tratta di salvare il proletariato dalla decadenza, dalla demoralizzazione e dalla rovina. E’ una questione di vita o di morte per l’unica classe creatrice e progressiva, e di conseguenza per l’avvenire dell’umanità. Se il capitalismo è incapace di soddisfare le rivendicazioni che scaturiscono inevitabilmente dalle calamità che esso genera, che muoia!”

L’esperienza dell’Unione Sovietica, il primo Stato operaio in cui il capitalismo fu rovesciato dalla rivoluzione socialista, ha dimostrato l’enorme potere della proprietà collettivizzata e della pianificazione economica centralizzata, nonostante la successiva degenerazione dello Stato operaio sotto il governo della casta burocratica stalinista. Un anno dopo il disastro nucleare di Chernobyl del 1986, novantamila persone evacuate avevano già ricevuto una nuova casa mentre i diretti responsabili della criminale malgestione dell’impianto vennero puniti. Vent’anni prima, quando un terremoto distrusse Tashkent nell’Uzbekistan sovietico, l’intera popolazione della città, 1,1 milioni di persone, fu rialloggiata in tre anni.

Nel 2008, la Cina fu colpita da uno dei terremoti più forti della storia, che distrusse la regione del Sichuan, facendo più di 87 mila morti e 370 mila feriti in un’area vasta quanto la Spagna. Nel terremoto morirono anche molti bambini, vittime del crollo di quelle che furono chiamate “le scuole di tofu”, costruite con incuria e disprezzo dalla casta stalinista dominante. Ma dal giorno successivo al terremoto, tutte le risorse del Paese furono mobilitate per i soccorsi e nel giro di due anni, lo Stato cinese ricostruì o rinforzò milioni di abitazioni e migliaia di scuole, ospedali, strade e acquedotti, investendo 845 miliardi di yuan (più di 133 miliardi di dollari). H.K. Miyamoto, il capo della Miyamoto International, multinazionale dell’ingegneria sismica, ha dichiarato che “il modo in cui la Cina ha ricostruito l’intera regione del Sichuan è stupefacente. Nessun altro Paese può permettersi di fare altrettanto: ricostruzione totale attuata dal governo”.

Il terremoto dello Sichuan ha dimostrato l’enorme potere di un’economia collettivizzata, assieme alle contraddizioni di uno Stato operaio burocraticamente deformato, dominato da una casta stalinista. In tutto il mondo, la necessità di un’economia pianificata a scala internazionale sottoposta alla democrazia operaia, a dei governi di consigli di operai e contadini, è ogni giorno più evidente.

In Cina, questo richiederebbe la cacciata della burocrazia stalinista dal potere con una rivoluzione politica del proletariato, che si basi sulla difesa dello Stato operaio cinese dall’imperialismo e dalla controrivoluzione.

La specie umana non può fermare gli tsunami, gli uragani o i movimenti tettonici. Ma il proletariato del mondo può cambiare la società umana, rovesciando il sistema imperialista capitalista che impedisce lo sviluppo dei paesi semicoloniali. Una rivoluzione operaia internazionale rimetterebbe la macchina del progresso al lavoro per ricostruire ponti, autostrade e fabbriche. E non soltanto qui: porterebbe avanti un vasto programma di aiuti per ricostruire i Paesi che sono stati devastati da decenni di saccheggio imperialista in Africa e altrove.

La classe capitalista, al suo tramonto, dimostra ogni giorno di essere incapace di mantenere la società in condizioni vivibili. La classe operaia, guidata dal suo partito rivoluzionario, dovrà strappare la società all’abbraccio mortale della borghesia.

 

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