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Spartaco n. 70 |
Ottobre 2008 |
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Elezioni americane
Obama: il volto rifatto dellimperialismo Usa
Repubblicani, democratici, verdi: nemici di classe degli operai e degli oppressi!
Per la liberazione dei neri con la rivoluzione socialista!
Per un partito operaio che lotti per un governo operaio!
Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, il candidato presidenziale del Partito democratico, quello che fu il partito degli schiavisti del Sud, è il senatore dell’Illinois Barack Obama, un nero, che sfiderà il candidato repubblicano John McCain. Per un paese così profondamente razzista, l’elezione di un presidente nero sarebbe indubbiamente uno sviluppo significativo. Ma ciò non cambierebbe l’oppressione dei neri, che è il pilastro del capitalismo americano e che non può essere eliminata senza il rovesciamento dell’ordinamento capitalista con la rivoluzione socialista.
Nonostante l’aria fritta sul “cambiamento”, Obama è un politicante capitalista tradizionale legato all’apparato democratico dell’Illinois, che si presenta come il miglior candidato alla gestione dell’imperialismo americano, capace di tenere al loro posto i lavoratori, i neri, gli immigrati e tutti gli oppressi, in un momento in cui il capitalismo americano rischia di precipitare in una crisi profonda, con una disoccupazione ufficiale che ha toccato il 6,1 per cento (il massimo da cinque anni). L’occupazione dell’Afghanistan, appoggiata da entrambi i candidati capitalisti, si è arroventata con l’uccisione e il ferimento di cinquecento persone in una sola settimana da parte degli Usa, mentre commando americani hanno condotto delle incursioni in Pakistan il 3 settembre, il tipo di azione invocato da Obama e in un gesto di unità bipartisan, la proposta fatta dal candidato vicepresidente Joe Biden di versare una tangente di 15 miliardi di dollari al nuovo presidente pachistano perché accetti ulteriori incursioni americane, è stata appoggiata dall’amministrazione Bush. I capi di stato maggiore hanno raccomandato di spostare parte delle truppe dal pantano iracheno all’Afghanistan, in linea con il recente appello di Obama per l’invio di altri diecimila soldati in Afghanistan. Entrambi i partiti continuano inoltre a minacciare l’Iran per il suo programma nucleare.
Come marxisti, come oppositori di questo ordine razzista, capitalista e imperialista, siamo per l’indipendenza politica della classe operaia dal nemico di classe capitalista. I lavoratori hanno bisogno di un partito che si batta per i loro interessi di classe, di un partito operaio che si impegni a spazzar via l’ordinamento imperialista assassino con la rivoluzione socialista. Ci opponiamo a qualsiasi appoggio politico a tutti i politicanti capitalisti: democratici, repubblicani, verdi o “indipendenti”. Votare un qualsiasi candidato borghese significa dare un voto di fiducia alla possibilità di riformare il capitalismo, un voto contro la necessità della rivoluzione socialista. Da parte nostra non siamo nemmeno disposti a candidarci per cariche esecutive, come quella di presidente, governatore o sindaco (vedi Spartaco n. 69, gennaio 2008). Negli Usa, il presidente è il primo poliziotto, responsabile della più enorme potenza militare della storia e della macchina di repressione interna che mantiene lo sfruttamento e l’oppressione sociale.
Per i governanti Usa, Obama, figlio di un kenyota e di un’americana bianca, è una scelta accettabile come presidente perché ripulirebbe l’immagine ridotta a brandelli dell’imperialismo Usa. Obama è un’arma molto potente di propaganda per la borghesia, perché dice ai neri e agli oppressi di stare zitti e smetterla di lamentarsi, perché è evidente che il “sogno americano” funziona! Andrew Sullivan, un ex sostenitore di Bush ed ex caporedattore del New Republican, nel dichiarare il suo appoggio ad Obama, ha detto: “Cosa offre? Prima di tutto: la sua faccia. Vedetela come la più efficace possibilità di ridisegnare l’immagine degli Stati Uniti dai tempi di Reagan. Una nuova immagine non è un aspetto secondario, ma decisivo per un’efficace strategia bellica” (Atlantic Monthly, dicembre 2007).
Infatti, quando Obama lo scorso 24 luglio ha parlato a Berlino, è stato accolto da più di duecentomila berlinesi che sventolavano bandiere americane. In termini di pubbliche relazioni è stato un trionfo che il presidente Bush non si sarebbe nemmeno potuto sognare. Come ha detto un commentatore, l’unico modo per Bush di radunare una folla simile, sarebbe stato di farsi processare come criminale di guerra. Il discorso di Obama è stato un riciclaggio strappa-applausi di tutti i vecchi cliché anticomunisti della Guerra fredda che possono venire in mente agli autori di discorsi borghesi. Berlino è il luogo dove nel 1963 (dopo il fallimento della sua invasione di Cuba alla Baia dei porci nel 1961 e l’invio delle truppe in Vietnam) John F. Kennedy tenne il suo famoso discorso “Ich bin ein Berliner”. Ed è ancora a Berlino che Ronald Reagan nel 1987 durante la seconda Guerra fredda chiese al leader sovietico Gorbaciov di “abbattere quel muro”.
La performance di Obama, un virulento mix del classico “liberalismo da Guerra fredda” e di retorica neocon, mirava a dimostrare che come comandante in capo imperialista sarebbe un duro. Obama ha affermato che dopo la Seconda guerra mondiale “l’ombra sovietica si è proiettata su tutta l’Europa dell’Est”. Ovviamente ha taciuto il fatto che fu l’Armata Rossa a sconfiggere la piaga del terrore nazista in Europa, a costo di più di 20 milioni di morti sovietici. Obama ha tessuto le lodi della Nato, “la più grande alleanza che sia mai stata costituita per difendere la nostra comune sicurezza”. Ha reso omaggio al “popolo tedesco” che ha “abbattuto quel muro” e alle “basi americane costruite nel secolo scorso” che “difendono la sicurezza di questo continente”. Il discorso puntava a rinvigorire gli “alleati occidentali” schierandoli dietro gli interessi imperialisti degli Usa: “Il popolo afgano” (proprio quello che le forze Usa e Nato massacrano impunemente), “ha bisogno dei nostri e dei vostri soldati”.
Anche se l’Unione Sovietica è stata distrutta, l’anticomunismo di Obama continua ad essere utile per uno scopo concreto, poiché prende di mira gli Stati operai deformati di Cuba, Corea del Nord, Vietnam e specialmente la Cina, il più potente tra gli Stati operai rimanenti. Come abbiamo fatto con l’Urss e gli Stati operai deformati dell’Europa dell’Est, oggi siamo per la difesa militare incondizionata degli Stati operai rimanenti contro gli attacchi imperialisti e la controrivoluzione capitalista.
La distruzione controrivoluzionaria dello Stato operaio degenerato dell’Unione Sovietica nel 1991-1992, una sconfitta storico-mondiale per il proletariato internazionale, ha creato un mondo ad una sola “superpotenza”, dominato dall’imperialismo americano. E’ in questo contesto che si devono vedere le occupazioni dell’Iraq e dell’Afghanistan, capeggiate dagli Usa. Come marxisti, rivoluzionari proletari, ci opponiamo ovunque alle avventure imperialiste e alle invasioni degli Usa. In “Imperialisti Usa fuori da Afghanistan e Iraq!” (Workers Vanguard n. 918, 1 agosto) abbiamo scritto:
“La Spartacist League, sezione americana della Lega comunista internazionale (quartinternazionalista) si è schierata per la difesa militare di Afghanistan ed Iraq contro l’attacco imperialista senza dare alcun appoggio politico ai tagliagole reazionari talebani, nemici delle donne, o alla dittatura capitalista di Saddam Hussein. Abbiamo sottolineato che ogni vittoria degli imperialisti nelle loro avventure militari incoraggia altre guerre di rapina; ogni sconfitta contribuisce alle lotte dei lavoratori e degli oppressi in tutto il mondo. Oggi rivendichiamo il ritiro immediato e senza condizioni di tutte le truppe e basi Usa dall’Iraq, dall’Afghanistan e dall’Asia centrale”.
Al contrario, i gruppi della sinistra riformista, come l’International Socialist Organization (Iso) Workers World Party (Wwp) e il Revolutionary Communist Party (Rcp), così come le varie coalizioni antiguerra che hanno messo in piedi, hanno rifiutato di difendere militarmente l’Afghanistan e l’Iraq contro l’attacco Usa. Col loro ritornello “soldi per i posti di lavoro e la scuola, non per la guerra”, i riformisti promuovono la menzogna secondo cui l’imperialismo può essere riformato con una “politica diversa”, amante di pace e giustizia. Ma come scrisse il leader bolscevico V.I. Lenin in L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916), durante le devastazioni causate dalla Prima guerra mondiale interimperialista:
“La proprietà privata, basata sul lavoro del piccolo proprietario, la libera concorrenza, la democrazia: tutte le parole d’ordine, insomma, che i capitalisti e la loro stampa usano per ingannare gli operai e i contadini, sono cose del passato. Il capitalismo si è trasformato in sistema mondiale di oppressione coloniale e di iugulamento finanziario della schiacciante maggioranza della popolazione del mondo da parte di un pugno di paesi ‘progrediti’. E la spartizione del ‘bottino’ ha luogo fra due o tre predoni (Inghilterra, America, Giappone) di potenza mondiale, armati da capo a piedi, che coinvolgono nella loro guerra, per la spartizione del loro bottino, il mondo intero”.
Sul piano interno, le occupazioni di Afghanistan e Iraq sono andate di pari passo con l’attacco dei capitalisti ai lavoratori, alle minoranze e praticamente a chiunque altro. Ciò che serve è la lotta di classe contro i governanti capitalisti nel proprio paese. Questa prospettiva richiede una lotta politica contro la burocrazia sindacale filo capitalista che subordina il proletariato al suo nemico di classe capitalista, specialmente promuovendo la logica del “male minore” in appoggio al Partito democratico (come i teamsters, il sindacato dei camionisti, il sindacato dei portuali Ilwu e quello dei trasporti, Twu, che hanno appoggiato la candidatura di Obama).
Gli uomini di Obama: un museo degli orrori dell’imperialismo
Nel 2007, Obama ha dichiarato al Consiglio di Chicago per gli affari globali che agli Stati Uniti serve avere “il primo esercito che sia veramente del ventunesimo secolo (...) Dobbiamo continuare ad avere l’esercito più forte e meglio equipaggiato del mondo”. Lo scorso marzo ha affermato di voler “ricondurre il paese alle tendenze di politica estera più ‘tradizionali’ dei vecchi presidenti come George H.W. Bush, John F. Kennedy e Ronald Reagan”. A questa “tradizione” appartengono l’invasione della Baia dei porci sotto Kennedy, le guerre segrete contro Nicaragua e Salvador negli anni Ottanta sotto Reagan; l’invasione di Panama e la guerra in Iraq nel 1990-91 sotto Bush padre.
La cricca che si occupa di politica estera per Obama include consulenti del Partito democratico come Zbigniew Brzezinski e Madeleine Albright. Brzezinski è il Dottor Stranamore anticomunista che fu consigliere per la sicurezza nazionale del presidente democratico Jimmy Carter e fece da vero e proprio padrino dei mujaheddin afghani, i reazionari tagliagole finanziati dalla Cia contro l’esercito sovietico, intervenuto in Afghanistan alla fine del 1979 in difesa del fianco meridionale dell’Urss e dalla parte del più elementare progresso umano.
Madeleine Albright era il segretario di Stato del presidente democratico Bill Clinton. A chi gli ha chiesto del blocco affamatore imposto dagli Usa all’Iraq, che ha ucciso un milione e mezzo di persone, ha risposto: “Era un prezzo che valeva la pena pagare”. Ha avuto un ruolo decisivo anche nei devastanti attacchi aerei di Usa e Nato contro la Serbia nel 1999, che all’epoca vennero appoggiati da molti liberali e riformisti che li consideravano il tipo di intervento “umanitario” che gli Stati Uniti dovrebbero attuare.
Joseph Biden, senatore del Delaware e presidente del Comitato per le relazioni con l’estero del Senato, scelto da Obama come vice presidente, è stato adeguatamente descritto dall’editorialista radical-liberale Alexander Cockburn come un “servo delle grandi aziende”, un “simbolo per antonomasia di tutto ciò che è immutabile e senza speranza nel nostro sistema politico, tanto che se un computer dovesse identificare tra i senatori del congresso il tipico esempio di collegamento tra politica e affari, sceglierebbe ‘Biden’ in un nano secondo” (CounterPunch Diary, 23/24 agosto). Nel suo discorso alla convention democratica il 27 agosto, Biden ha tracciato il piano imperialista del campo di Obama:
“Il nostro paese è meno sicuro e più isolato che mai nella storia recente (...) L’emergere della Russia, della Cina e dell’India come grandi potenze; la diffusione di armi letali; la carenza di fonti sicure di energia, di cibo e di acqua; la sfida del cambiamento climatico e il risorgere del fondamentalismo in Afghanistan e in Pakistan, che sono il vero fronte nella lotta al terrorismo (...) Abbiamo visto ancora una volta le conseguenze di questa negligenza con la sfida lanciata dalla Russia alla Georgia libera e democratica. Barack Obama ed io porremo fine a queste negligenze”.
Il mondo è avvisato.
La menzogna della “fine del razzismo”
La campagna di Obama promuove il mito della “fine del razzismo” e la famiglia di Obama dovrebbe rappresentare la prova vivente del fatto che anche i neri possono farcela negli Usa. La menzogna della “fine del razzismo” e la sepoltura della lotta per l’integrazione razziale come un “esperimento fallito”, rappresentano il lato domestico della mitologia reazionaria sulla “fine del comunismo” promossa dagli ideologi imperialisti dopo la distruzione contro-rivoluzionaria dell’Urss.
Entrambi questi miti sono profondamente falsi. L’oppressione dei neri, le cui radici risalgono allo schiavismo, si intrecciano profondamente col tessuto sociale dell’America capitalista. E’ una falsità, la cui unità di misura sono i tassi di disoccupazione astronomici, il terrorismo poliziesco, il fatto che quasi un milione di neri sono rinchiusi in galere o l’esclusione dei giovani neri dall’istruzione superiore. Obama fa sparire tutto e sostiene, come ha fatto l’anno scorso in un discorso a Selma, che l’America ha percorso “il 90 per cento del cammino” verso l’uguaglianza razziale! In verità è solo per il fatto che attualmente mancano lotte dure degli operai e dei neri contro le loro condizioni di oppressione che rende possibile raccontare simili menzogne.
L’oppressione dei neri come casta di razza-colore storicamente segregata a forza al fondo della società, ha le sue radici materiali nel capitalismo americano e ne costituisce un elemento centrale. Lo schiavismo fu distrutto solo col sangue e col piombo nel corso della Guerra civile, la seconda Rivoluzione americana. Oggi gli operai neri, in virtù della duplice posizione che occupano, sia in quanto più oppressi che in quanto più coscienti ed esperti di lotte, sono destinati a svolgere un ruolo eccezionale nella terza rivoluzione, la rivoluzione socialista. Come abbiamo scritto in Workers Vanguard n. 906 (18 gennaio):
“La nostra lotta per la liberazione dei neri si basa sul programma dell’integrazionismo rivoluzionario, che è contrapposto sia all’integrazionismo liberale sia al nazionalismo nero. Pur opponendoci a qualsiasi manifes-tazione di oppressione razzista e lottando in particolare per mobilitare il potere sociale del movimento operaio multirazziale, sottolineiamo il fatto che la piena egua-glianza delle masse nere richiede che la classe operaia strappi l’economia dalle mani dei governanti capitalisti e la riorganizzi su basi socialiste. Solo allora sarà possibile eliminare le radici materiali dell’oppressione dei neri, integrando la popolazione nera in una società socialista egalitaria basata su di un’economia collettivizzata che fornisca a tutti posti di lavoro, case, assistenza sanitaria ed educazione di qualità”.
Il legame tra le guerre imperialiste degli Usa all’estero e la reazione razzista domestica è evidente. Due anni prima della guerra ispano-americana del 1898, che segnò l’ingresso dell’imperialismo Usa sullo scenario mondiale, la Corte suprema codificò la segregazione rappresentata dal sistema di Jim Crow, nella sentenza Plessy v. Ferguson, che sancì il principio di “separati ma uguali” come legge del paese, mentre gli anni tra il 1889 e il 1903 conobbero una media di due linciaggi a settimana. Tra i neri, l’opposizione alle avventure militari dell’imperialismo Usa è storicamente più forte che tra il resto della popolazione.
Dal genocidio imperialista con cui furono “pacificate” le Filippine dopo la vittoria nella guerra contro la Spagna, all’intervento in Nicaragua per sopprimere la ribellione di Sandino negli anni Venti e Trenta, dall’occupazione della Repubblica dominicana nel 1965, al Libano, Panama e Grenada, fino alle guerre contro Iraq e Afghanistan, l’imperialismo Usa ha lasciato una triste scia di massacri in tutto il mondo, tutti accompagnati da una spietata oppressione razzista e dal disprezzo per i popoli “non bianchi”. Nel novero rientrano anche le guerre controrivoluzionarie scatenate dall’imperialismo contro le rivoluzioni sociali in Corea e Vietnam, con il massacro di quasi sei milioni di persone. Ecco l’amaro commento di un taxista iracheno, intrappolato a Baghdad quando la città è stata bloccata in occasione della visita di Obama la scorsa estate: “Cosa dovrebbe importarci del fatto che sia un bianco o un nero a vincere le elezioni? Obama e Bush sono due facce della stessa moneta: moneta americana”.
Sconfiggere l’imperialismo Usa con la rivoluzione socialista!
Resta il fatto che gran parte di ciò che passa per sinistra in questo paese appoggia esplicitamente o implicitamente la vittoria del Partito democratico sui repubblicani alle prossime elezioni. Dopo avere costruito un “movimento contro la guerra” che si basava sul fare appello ai politicanti borghesi (democratici) perché ponessero “fine alla guerra” in Iraq (ma solo in Iraq, non in Afghanistan!) i liberali e i loro sostenitori riformisti adesso hanno seppellito il “movimento” nella palude della politica elettorale americana.
Il punto di partenza della sinistra riformista non è la lotta per la rivoluzione socialista, bensì la menzogna che è possibile riformare il capitalismo in modo che serva gli interessi dei lavoratori e degli oppressi.
Ne L’imperialismo, Lenin svelò questo imbroglio, notan-do che “la critica piccolo-borghese e reazionaria dell’im-perialismo capitalista sogna un ritorno indietro, alla ‘libera’, ‘pacifica’, ‘onesta’ concorrenza”, ed insistendo che “una ‘lotta’ contro la politica dei trust e delle banche che non colpisca le basi economiche dei trust e delle banche si riduce ad un pacifismo e riformismo borghese condito di quieti quanto pii desideri”.
Questo riassume l’appoggio di gruppi come Workers World alla candidata presidenziale per il partito capitalista dei Verdi, Cynthia McKinney. O la politica dei riformisti anticomunisti dell’Iso, che sostengono che “l’appoggio a Barack Obama è il segno di un più profondo spostamento a sinistra” (Socialist Worker, 13 agosto). L’Iso non ha mai incontrato un controrivoluzionario “combattente per la libertà” che non gli piacesse, perciò è normale che vedano un alleato nell’anticomunismo della banda di Obama e Brzezinski. Il Socialist Worker (27 agosto) ha riprodotto un pezzo di Dave Zirin, corrispondente abituale del giornale, dal titolo: “Ciò che non abbiamo imparato a Pechino”. L’articolo castiga i media borghesi per aver fatto troppo poco contro la Cina durante le Olimpiadi, condannandoli a quanto pare per non aver chiesto “perché lo scorso aprile il Dipartimento di Stato ha rimosso la Cina dalla lista delle nazioni che violano i diritti umani”.
Anche se l’Iso, il Revolutionary Communist Party e Workers World ed altri gruppi riformisti di sinistra, hanno pubblicato tutti degli articoli in cui “denunciano” la politica di Obama, si tratta di una maschera ben sottile per mascherare la loro politica reale, il sostegno al Partito democratico come “male minore”. Le loro varie coalizioni non fanno che ripetere, con parole diverse, il più classico appello del Rcp: “Il mondo non può aspettare: cacciare il regime di Bush!” Strana coincidenza, è proprio l’obiettivo dei democratici quest’anno.
Anche quei gruppi che non fanno direttamente da portaborracce del Partito democratico, appoggiano il candidato dei Verdi, Cynthia McKinney. Cynthia McKinney è una donna nera, ex parlamentare di lunga data del Partito democratico, che agli occhi di molti giovani e neri può sembrare un’alternativa radica-le ad Obama. Si è opposta all’occupa-zione dell’Iraq e a quella dell’Afgha-nistan, che è invece appoggiata dalla stra-grande maggioranza dei democratici (ben-ché, lo ricordiamo, tre giorni dopo gli attentati dell’11 set-tembre 2001 contro il World Trade Center e contro il Pen-tagono, McKinney votò a favore della mozione che diede al presidente Bush carta bianca per l’invasione dell’Afghanistan). Come parlamentare demo-cratica della Georgia, ha difeso i diritti nazionali dei palestinesi e chiede di farla finita con la “guerra alla droga” razzista, di cancellare la legge antioperaia Taft-Hartley e chiede una “amnistia” per tutti gli immigrati privi di documenti. Difende apertamente il prigioniero della guerra di classe Mumia Abu-Jamal e ha firmato la dichiarazione del Partisan Defense Committee che proclama l’innocenza di Mumia e ne chiede la liberazione
Ma nonostante la sua pretesa “indipendenza” dai democratici, McKinney ha rilasciato una dichiarazione di congratulazioni ad Obama dopo la resa della Clinton:
“Detta da Barack Obama, la parola ‘cambiamento’ non sembra l’ennesimo proclama elettorale. Ha galvaniz-zato milioni di persone, soprattutto di giovani, spin-gendoli a far sentire la loro voce e ad attivarsi nel sistema politico”.
La sua campagna è nella tradizione della politica di pressione sui democratici, che consiste nel costruire in seno al Partito democratico una “base elettorale” abbastanza forte da non poter essere ignorata. Dopo aver elencato una serie di rivendicazioni della sua “Campagna per il potere al popolo”, McKinney ha spiegato il compito centrale della sua campagna: “Io incoraggio il Partito democratico e il suo nuovo probabile candidato, il senatore Obama, a fare suoi questi importanti suggerimenti di iniziativa politica”.
Ma la cosa fondamentale è che si tratta di una politicante capitalista. Un voto per un candidato borghese, anche il più di sinistra, resta un voto di fiducia nella possibilità di riformare il capitalismo, un sistema brutale che si basa sullo sfruttamento, sull’oppressione e sulla guerra.
Ciò che serve è forgiare un partito operaio rivo-luzionario, costruito in maniera indipendente e in opposi-zione ai democratici, ai repubblicani, ai verdi e a tutti i partiti capitalisti. Un partito operaio che si batta per la rivoluzione socialista e per un governo operaio.
La retorica dei democratici su “speranza” e “cambiamento” serve a rinverdire le illusioni che il gioco delle tre carte della politica elettorale borghese possa funzionare nell’interesse delle masse lavoratrici. In effetti l’affluenza alle primarie democratiche è stata molto alta anche tra i neri e i giovani. Ma se è vero che i repubblicani si esaltano nell’imporre sofferenze ai lavoratori e agli oppressi, i democratici fanno le stesse cose con un espressione più gentile. Come ha ben descritto Lenin nel suo libro del 1917, Stato e Rivoluzione:
“Decidere una volta ogni qualche anno qual membro della classe dominante debba opprimere, schiacciare il popolo nel Parlamento: ecco la vera essenza del parlamentarismo borghese”.
Il sistema dell’imperialismo, lo stadio superiore del capitalismo, non può essere riformato. Non può essere spinto ad essere più pacifico ed umano. Guidando la Rivoluzione d’Ottobre del 1917, i bolscevichi di Lenin mostrarono che lo si può e lo si deve sconfiggere con la rivoluzione operaia. La Spartacist League si batte per forgiare un partito operaio come il partito bolscevico per rovesciare questo marcio ordinamento capitalista con la rivoluzione socialista. Per questo siamo in opposizione implacabile ai due partiti del capitalismo, oltre che ad aspiranti riformisti piccolo-borghesi come i verdi. Rompere con i democratici! Per un partito operaio rivoluzionario che lotti per la rivoluzione socialista!
Adattato da Workers Vanguard n. 917 e n. 920, luglio e ottobre 2008.
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